Sostiene Massimo D’Alema una sacrosanta, incontestabile verità su sé stesso: “Non ho mai fatto parte della sinistra della sinistra, ma sempre del centro della sinistra“. La parola “centro” associata a “sinistra” ricorre e si rincorre nel tentativo di queste ore di procrastinare i tempi per meglio costruire quel “ConSenso” che ancora manca alla presunta sinistra dalemian-bersaniano-emiliana cui forse potrebbe sommarsi anche Gianni Cuperlo.
E’ tutto ancora nel grembo di Giove, come suole dirsi. Anche perché le dinamiche interne al Partito democratico sono diametralmente opposte: se D’Alema frena sul ricorso alle urne, Renzi accelera e propone di svolgere quanto prima possibile.
La lotta è tra chi rischia di perdere sempre più consenso e chi non ne ha e cerca di acquisirlo. Ergo, è una lotta magari non proprio fra titani, ma certamente tra due parti contendenti che si giocano il controllo di una buona fetta di partito e, quindi, un ritrovato trampolino di lancio per Palazzo Chigi.
Magari anche gestito non direttamente da loro: un Franceschini, un Delrio per Renzi e un Bersani, uno Speranza, un Cuperlo per D’Alema può essere il candidato presidente del Consiglio erede di Gentiloni.
La partita è la gestione degli equilibri di potere nel Paese che vengono definiti con metafore molto eleganti come “governabilità”, “stabilità”, “gestione della crisi”, e così via.
C’è un po’ di tutto questo nel destino del Partito democratico che l’ala antirenziana vorrebbe libero dal renzismo: come modello politico e culturale tanto interno quanto esterno al PD stesso.
Il silenzio con cui governa Gentiloni non è una caratteristica di poco conto: rappresenta fenomenicamente, anche se invisibilmente e anche non audibilmente, la necessità di un distacco tra le beghe che il partito di maggioranza relativa dovrà attraversare nelle prossime settimane e l’attività di un esecutivo che prosegue nella conferma delle precedenti linee di politica economica, antisociale e che, in tema di scontro con l’Europa, si percepisce solo quando il ministro Padoan rivendica un ruolo nazionale dell’Italia davanti alla minaccia delle procedure di infrazione che Bruxelles esplicita ad ogni piè sospinto.
Il ricorso alle elezioni politiche creerebbe uno scenario indubbiamente nuovo e, sia permessa la parola, “rivoluzionario” nell’attuale fase di staticità in cui ci troviamo: soprattutto se si andasse a chiedere la delega popolare con una legge elettorale proporzionale.
La paura tanto di D’Alema quanto di Renzi è l’impossibilità di essere al “centro” della scena, magari allargando la coalizione o la lista ad altri micro soggetti attualmente in maggioranza di governo e a settori di sinistra che si preparano a rinverdire le gesta del centrosinistra ancor prima che questo sia stato dichiarato resuscitabile.
La voglia di trovare uno spazio nel rimescolamento delle posizioni, che sarà naturale conseguenza delle scelte che verranno fatte dalla maggioranza del PD, è alla base di tante proclamazioni di rinascita di una sinistra pronta nuovamente ad essere d’appoggio ad un centro che, se vincono D’Alema, Bersani ed Emiliano sarà una pseudo-riedizione di quello ulivista, se, invece, dovesse prevalere Renzi sarà più che altro un PD simbiotizzante, inglobatore di parti di centrodestra e di sinistra per formare qualcosa di simile al “Partito della Nazione” che verrà presentato come argine alle destre storiche e a quelle grilline.
Chi accelera, chi frena, chi è pronto a fare da servitore cortese nel cambiare marcia a seconda della velocità cui vorrà viaggiare il conducente. E il conducente sarà sempre e comunque espressione del PD. Quindi nessuna illusione sul nuovo centrosinistra: sia quel che sia, anche dovesse esservi una scissione poderosa, questa “novità” nell’ipotetico defunto panorama del renzismo italico, dovrà comunque confrontarsi con Renzi se non avrà la forza di prendersi il partito e di mettere in minoranza l’ex sindaco di Firenze e chi, con lui, vuole il premio di maggioranza alla singola lista invece che alla coalizione.
Orfini è stato molto chiaro su questo punto: è il partito che deve ottenere il premio, non le coalizioni. E queste ultime sono temute anche da D’Alema: “Farebbero tornare le destre”, “Le farebbero arrivare al 35%”. Una analisi non campata in aria.
Ma sia consentita una domanda retorica ogni tanto: chi ha servito fino ad oggi le ragioni del capitalismo e delle banche per poi lamentarsi quando gli è stato tolto il giocattolo dalle mani allorché la BCE ha stabilito che chi governava non era più adatto al ruolo che ricopriva per garantire gli interessi del profitto continentale?
Un vecchio adagio dice: “Chi è colpa del suo mal, pianga sé stesso.”. Il punto è che a piangere sono solo quei milioni di moderni proletari che nemmeno si accorgono di essere tali, di essere sfruttati e che pensano che “battere le destre” voglia dire votare PD o magari il centrosinistra futuribile di D’Alema.
Quindi, non si battono le destre (PD compreso) con ricostituzioni di alleanze liberal-liberiste fintamente pennellate da una scia sbiadita di rosso che le faccia apparire ambivalentemente tanto di centro quanto di sinistra.
Le destre (tutte le destre) si battono con un lavoro lungo, di separazione da ciò che vuole confondere intelletti e anime e dimostrando con molta costanza che una differenza immensa esiste tra chi vuole dirsi di sinistra (facendo gli interessi dei padroni) e chi vuole essere di sinistra (facendo gli interessi dei lavoratori e degli sfruttati, dei precari e dei disoccupati). Sembrare ed essere. In mezzo ci passa più di un oceano…
MARCO SFERINI
10 febbraio 2017
foto tratta da Pixabay