I sondaggi paiono attenuare l’impatto del Rassemblement National nel secondo turno delle legislative francesi. Previsioni, ed anche analisi, possono incappare in clamorosi errori tanto di sottovalutazione quanto di sopravvalutazione e, quindi, quello che si può fare in attesa del responso delle urne è affidarsi ai fatti intercorsi in questo periodo di tempo tra il primo turno e questi primi giorni di luglio.
A freddo, dopo le prime considerazioni sul dirompente esito di un voto che ha bocciato sonoramente le politiche macroniane e del governo ultimo di Gabriel Attal, ma soprattutto di una grandeur francese inserita nel Vecchio continente europeo come elemento dirimente per l’intera politica della UE, è proprio questo perimetro della politica transanazionale che, unitamente a quella interna, rischia di deflagrare sotto spinte imprevedibili fino a poco tempo fa.
Uscita da una condizione di minorità struttural-economica e anche psico-sociologico-politica in cui era dovuta finire dal secondo dopoguerra, la Germania è divenuta una competitrice d’avanguardia: non solo nei confronti, appunto, di Parigi, ma del resto dell’intera Europa e, in particolare, dopo la Brexit. I risultati sono sotto gli occhi davvero di tutti: benché questa Unione Europea sia quanto di più lontano possa esservi dal sociale, dai diritti del mondo del lavoro e dei più disagiati, uscirne vuol dire, anche per un paese avanzato come Gran Bretagna, esporsi ad un isolazionismo pericoloso.
Tra le tante pulsioni nazionaliste che il Front prima e il Rassemblement National poi hanno manifestato nel corso della loro storia, c’è ovviamente quella di un ritorno della francocentricità rispetto all’europeismo dei liberali, pure quelli più conservatori, che, in virtù del mercatismo liberista comune, hanno sacrificato qualunque idea di nazione oggi declinata in un senso di autonomia decisionale su questioni che sono propriamente tipiche di uno Stato sovrano.
Marine Le Pen, e non meno Jordan Bardella, sono stati – al pari di Giorgia Meloni in Italia – capaci di giocare una partita doppia sempre nello stesso campo: quello del neonazionalismo che, seppure ampiamente di facciata, è e rimane il substrato psuedo-culturale di un antieuropeismo spacciato per attacco alle élite finanziarie di Francoforte, a quelle politico-istituzionali di Bruxelles e persino al Parlamento di Strasburgo.
La campagna elettorale del Rassemblement National è stata, del resto, improntata a fronteggiare due nemici storici: i marxisti da un lato, pericolosi agitatori antinazionali nel nome dell’internazionalismo e della globalizzazione dei diritti che dovrebbero essere universali, e l’Europa dei trattati dall’altro. L’interrogativo che, oggi, a poche ore dal secondo turno delle legislative più importanti di questi ultimi anni per la Francia, ci si pone è inevitabilmente questo: l’eventuale coabitazione tra Macron all’Eliseo e Bardella all’Hôtel de Matignon (residenza del Primo Ministro della République) sarà possibile?
E se lo sarà, come del resto dovrebbe accadere, visto che non sarebbe la prima volta nella storia della Francia repubblicana, ma sarebbe certamente la prima con gli eredi del neofascismo del Front National, che ripercussioni avrà tutto questo sul piano squisitamente europeo? Risponde al vero il fatto che il Presidente ha una preminenza nella rappresentanza della Nazione nei consessi europei. Ma risponde anche ad altrettanto vero il fatto che i singoli ministri di un eventuale governo del RN sarebbero in prima fila nelle diverse sessioni operative di Bruxelles per fare la loro parte.
E questo finirebbe con il costituire una contraddizione inevitabile per una politica comunitaria francese che avrebbe ancora il retrogusto della macronie ma che sarebbe, invece, proiettata pericolosamente verso quell’orizzonte dei “Patrioti per l’Europa” composto dagli antieuropeisti di destra più pervicacemente ostinati. Su quasi tutti i temi portati avanti dalla antisociale Commissione europea di Ursula von der Leyen (che ha avuto e avrà il sostegno, tra gli altri, anche dei verdi tedeschi ed italiani, del PD e delle forze socialdemocratiche di mezzo continente), la forza di Le Pen e Bardella è in aperta contrapposizione.
Il tentativo di apparire come grimaldello del potere economicistico-finanziario di Bruxelles, in favore dei ceti popolari più modernamente impoveriti dalle politiche liberiste del macronismo, è uno degli elementi principali di persuasione elettorale da parte del Rassemblement National nei confronti dei moderni proletari e di un ceto medio che punta sulla destra che considera – perché così viene ampiamente rappresentata – come non più fascistoide ma semplicemente conservatrice e, scusate se è poco, reazionaria.
Sondaggi che, ovviamente, vanno presi con le dovute cautele del caso, rivelano che più della metà dell’elettorato del RN è convinto che si possa attuare quella che, anche in Italia, qualche esponente di spicco della politica nazionale (da noi qualche ministro…) definisce come uno dei pericoli maggiori per l’identità e l’integrità del paese: la “sostituzione etnica“. Che i non-francesi e i non-italiani siano molti e lo si possa evincere ogni giorno semplicemente girando le vie delle nostre città, è un dato di fatto di una globalizzazione che spinge dai continenti poveri a quelli meno poveri fiumane di esseri umani.
Che tutto questo sia il primo passo verso la “sostituzione etnica” è davvero un argomento capzioso che, per quanto oggettivamente pregiudizievole, fa breccia addirittura in una parte dell’elettorato di sinistra: un terzo degli elettori del Partito Comunista Francese pensa che non si viva più come prima e che effettivamente il numero degli stranieri presenti sia molto alto e abbia conseguenze dirette nella struttura tanto economica quanto in quella sociale della comunità locale e dell’ambito più ampio nazionale (fonte: Commissione consultiva nazionale per i diritti umani (CNCDH)).
L’Europa dei popoli, come idea sociale di condivisione tanto delle fragilità quanto delle forze di ogni singolo paese nel contesto continentale, come principio primo di mutuo soccorso, si è rivelata, a causa delle politiche liberiste, un boomerang verso soprattutto gli Stati più fragili che affacciano sul Mediterraneo e che, come Italia, Francia, Spagna e Grecia, sono tra i maggiori recettori del fenomeno migratorio tanto da est quanto dalle zone sub-sahariane.
Il passato colonialista francese, oltre modo, incide su una storia nazionale che fa sempre più fatica a recuperare il vero valore del trittico rivoluzionario “Liberté, Égalité, Fraternité“, utilizzato anche dalle destre per la dimostrazione di una adesione piena ed incondizionata ad un patriottismo identitario e suprematista che si esprime, e non abbiamo purtroppo letto e capito male, in un programma di governo del Rassemblement National che vuole escludere da ogni pubblica amministrazione tutti coloro che hanno una doppia nazionalità.
Significherebbe svuotare ospedali, uffici pubblici e privati, settori importanti e strategici dell’economia nazionale di migliaia di dipendenti e mandare in crisi una pluralità di comparti che metterebbero davvero a rischio la tenuta della Francia nelle complesse sfide cui è stata inserita dalla macronie in questi ultimi lustri (guerra compresa…). Ma, al di là di questo, l’idea di privilegiare la francesità dei francesi è un vero e proprio aggiornamento razzistico delle selezioni etniche da Terzo Reich.
Un abominio che, pure, è stato rivendicato nel corso della campagna elettorale fino al primo turno e forse è venuto un po meno oggi, nell’intercapedine temporale tra i due momenti di chiamata al voto. La speranza è affidata alla buona volontà di lettura del presente da parte di un popolo francese, soprattutto di sinistra e di centro moderato, che, seguendo le indicazioni dei rispettivi partiti, ma anche tornado al voto ancora di più rispetto ad una settimana fa e contribuendo ad un ulteriore dimagrimento dell’astensionismo, costituisca quella diga da “blocco repubblicano” per fermare Le Pen e Bardella.
Dopo, se dovesse essere battuta la possibilità di una maggioranza pressoché assoluta del RN nell’Assemblea Nazionale, allora si aprirebbe una partita differente ma tutt’altro che rassicurante: se il peggio potrà dire di essere alle spalle, i conti si dovrà tornare a farli con un macronismo che, effettivamente, sul piano delle ricadute antisociali, delle sferzate contro lavoro e pensioni, contro diritti sociali ed umani, non è stato meno inclemente di quanto potrebbe configurarsi un governo dell’estrema destra votata al neoconservatorismo reazionario.
Tuttavia, il risultato del Nouveau Front Populaire lascia ben sperare nella possibilità di una concreta incisività in una maggioranza di governo in cui però non entrino soltanto parti dell’alleanza progressista, ma l’intero aggregato formatosi appena prima del voto annunciato dal presidente immediatamente dopo l’esito delle ultime elezioni europee.
Se il NFP dovesse spaccarsi proprio sulla possibilità di una maggioranza con Ensemble e con altre forze di centro, qualunque apporto da sinistra ad un governo di unità nazionale sarebbe nettamente subordinato ad un piano di riforme sconfitto dalle urne, ma premiato dalle divisioni nell’arco della litigiosa sinistra francese. Perché, purtroppo, non si questiona solamente in Italia nella galassia del progressismo. Divisioni, scissioni e ricongiungimenti sono processi comuni tanto all’Italia quanto alla Germania, tanto alla Francia quanto alla Germania.
Nella nostra presuntuosa “modernità“, chiusi in ambiti nazionali oltre i quali scorgiamo soltanto inimicizie e prevenzioni, prestiti a tasso di usura e condizionamenti economico-finanziari del peggior strozzinaggio bancario, l’Europa è ovviamente avversaria di una visione invece di giustizia sociale che mette insieme le forze politiche della sinistra d’Alpe e d’Oltralpe. Ma questa unità si va ad infrangere poi nei tatticismi post-voto, nei protagonismi singolari di una presunzione di verità affidata a programmi irrealizzabili anche solo a breve termine.
Non si tratta di recuperare una umiltà di facciata per presentarsi all’elettorato con il volto sorridente del riformismo che non dimentica comunque gli afflati rivoluzionari. Si tratta di disconoscere anzitutto la pratica del governismo come metodo di condivisione programmatica al fine di arrivare al potere a qualunque costo, sacrificando così il dialogo con chi sta magari più a sinistra e, per quanto oggi irrilevante, è capace di organizzare e muovere lotte altrimenti dimenticate.
Se la desistenza nei collegi elettorali francesi permetterà la fine della corsa alla maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale e, quindi, potrà sbarrare la strada al RN al governo della Francia, è evidente che immediatamente dopo non vi sarà giustizia sociale, solidarietà e benessere per tutti. Si sarà evitato solamente (si fa per dire…) un grande pericolo: quello di una caduta di un presidio democratico, di una grande nazione che deve rimanere al di qua della linea di confine tra diritti universali e perversi suprematismi nazionali.
Ciò detto, la questione liberista rimane un problema del tutto aperto che si staglia anche davanti alle potenti percentuali di una sinistra che ha il dovere di raccogliere una sfida di governo, ma non di farlo peggiorando le condizioni esistenziali delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari, delle donne e degli anziani nel nome delle compatibilità con l’Europa dei banchieri e dei capitali.
Per fortuna i verdi francesi non sono al pari di quelli tedeschi e nemmeno di quelli italiani che, nel Parlamento di Strasburgo, siederanno in uno stesso gruppo a sostegno di Ursula von der Leyen, quindi a sostegno anche del riarmo e della guerra. Tutto poi, come le tessere del domino, subisce un pericoloso effetto meccanicistico che è difficile fermare sulla punta dei soli princìpi.
E, tuttavia, è indispensabile trovare una nuova capacità di coniugazione del pragmatismo politico e dei programmi a breve termine con una più generale idea di nazioni, di Europa e di mondo che ha la necessità urgente di formarsi nella convergenza proprio di quelle differenze che ci separano a sinistra. Il rischio è che la destra faccia sempre più breccia nel disagio sociale e ne alteri le potenzialità caratterizzandolo come stizzoso, xenofobo e identitario bastone da agitare verso i nostri simili.
In Francia, come nel resto d’Europa, si gioca la partita della sopravvivenza democratica, ma, superata (per il momento) quella, occorrerà giocare quella della riqualificazione sociale, dei diritti di tutti, per tutti.
MARCO SFERINI
7 luglio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria