48 ore con Cesare Battisti. Tanto è il tempo che abbiamo passato in questi giorni costretti a seguire le vicende dell’ex membro dei “Proletari armati per il comunismo” catturato in Bolivia ed estradato in Italia.
48 ore incessantemente riempite di immagini ripetute nei telegiornali, rilanciate da millanta siti Internet, rimbalzanti su tutti gli a-social network possibili che ci hanno dimostrato ancora una volta, caso mai ve ne fosse bisogno, come si fa informazione e “cultura” (le virgolette sono d’obbligo) oggi.
Vogliamo azzardare qualche numero? Quanti sapevano chi fosse Cesare Battisti prima delle fatidiche 48 ore boliviane? Quanti ne conoscevano la storia e magari un cenno anche soltanto delle vicende processuali? Diciamo che su cento italiani, ad essere proprio generosi, solo un 10% era al corrente della travagliata terroristica vita di questo omonimo del martire dell’irrendetismo italiano nelle tre Venezie.
Qualcuno ha anche provato ad ironizzare sul nome e sul cognome, facendone sberleffo da gettare in basto alla credulità popolare che non mangia la foglia nemmeno se questa è già stata divorata: i maestri del fotoritocco e della grafica da “fake news” hanno fatto circolare le solite immagini con le grandi scritte di stupore e vergogna per le vie intitolate al terrorista, mostrando l’angolo di una città dove, svoltando da via Giuseppe Mazzini, si finiva in via Cesare Battisti per l’appunto.
Molto divertente, se non fosse che qualche centinaia di migliaia di italiani avrà creduto alla baggianata e l’avrà magari pure riproposta come elemento di stigma verso la brutta, sporca e cattiva sinistra, i più brutti, sporchi e cattivi comunisti che hanno protetto, spalleggiato e sostenuto con tanti appelli l’ennesimo “mostro” da sbattere in prima pagina.
Su questo oggi si fonda la cultura popolare: sul “sentito dire” che un tempo era una semplice calunnia portata dal consueto venticello; oggi invece diventa il modo sistemico per la costruzione di un sensazionalismo che occulta tutte le altre notizie (sarebbe potuta anche scoppiare una bomba atomica su Roma, ma ieri si sarebbe parlato comunque del “caso Battisti”…) e si trasforma in presunzione sui fatti, riducendoli non a qualcosa di disarticolabile e comprensibile, ma ad una immediatezza che non lascia spazio a giudizi, bensì soltanto a pregiudizi.
Se è vero che non si può mai essere pienamente a conoscenza di qualunque cosa accada e che, quindi, le informazioni che recepiamo dai cosiddetti “mass media” sono ovviamente parziali e filtrate da altrettante presunzioni intellettuali e pseudo tali, è però vero che le possibilità che oggi abbiamo per ottenere un approfondimento su ciò che ci viene propinato sono molte e le fonti rintracciabili sono praticamente infinite se si incrociano biblioteche virtuali con biblioteche reali.
Vecchia e nuova cultura, vecchio e nuovo approccio al sapere possono fare la differenza in un mondo in cui è sufficiente la debole copertura della superficialità, di ciò che emerge, per considerarsi pienamente informati e capaci dunque di esprimere un giudizio compiuto.
Se a tutto ciò si aggiunge la disposizione ormai largamente diffusa a diventare tutti giudici per un quarto d’ora e sentenziare da Facebook o Twitter su qualunque tema si abbia sotto gli occhi, quindi un desiderio spasmodico di puntare l’indice accusatorio e di assurgere a difensori di una non si sa bene quale morale, allora si può avere una visione dell’arretramento veramente inquietante sul piano culturale, quindi morale, del Paese e di un popolo di pressapochisti, ignoranti, presuntuosi, violenti e crudeli.
Le virtù morali sono attinenti alla coscienza e, a sua volta, quest’ultima è prodotto di un esistenza sociale, quindi di un contesto in cui si vive. E’ un cane che si morde la coda, perché chi, come sosteneva Jung, i ragazzi che crescono non lo fanno in base alle parole dei genitori ma in base ai loro comportamenti: quindi, condizione sociale e comportamenti conseguenti sono il primo passo per la costruzione di una morale che è base della cultura su cui un popolo si sviluppa o si inviluppa.
Nel nostro caso, assistiamo ad un alto tasso di credulità popolare che si picca d’essere invece autorizzata a giudicare, a sentenziare e a sentirsi sempre “nel giusto”.
Per questo Cesare Battisti, che deve scontare la pena prevista, riceve il disprezzo del popolo italiano che segue quella locuzione: “Marcire in carcere”, pronunciata da un ministro dell’Interno che indossa la casacca della polizia, che diventa plasticamente una fenomenologia dello spirito di stampo prettamente hegeliano: una sublimazione, un esercizio quotidiano di trasformazione del niente nel tutto, del falso (perché parziale, perché non conosciuto propriamente, perché monco e quindi mancante di elementi che renderebbero compiuta la consapevolezza di un fatto) nel vero, e così via…
Lo spirito del mondo che ha oggi il popolo italiano è una miseria della filosofia indubbiamente ma è anche una miseria morale che si alimenta attraverso i degni rappresentati che sono stati scelti per governare, per gestire la mediocrità di un Paese irriconoscibile e che è preferibile da ricordare persino nei tempi più bui della Repubblica quando, negli anni ’90, una intera classe dirigente rovinò pesantemente a terra dagli alti palazzi del potere e lasciò il posto ad una ben peggiore (ma rivoluzionaria) fase di ammodernamento tanto della materialità delle cose quanto della già ampia fascia di immoralità cresciuta nei tempi della “Milano da bere”.
La canea giustizialista è sempre pronta a prendersi il Caino di turno e a massacrarlo: la lapidazione potrebbe tornare di moda. Magari qualcuno invocherà a breve anche un ritorno alla pena di morte. E tutto ciò, veramente un paradosso, si astrae dal contesto battistiano: i dubbi sulla colpevolezza del terrorista dei PAC non mutano un giudizio di galattica lontananza di qualunque comunista libertario da un comunista come Battisti.
Eppure quella attribuzione, quell’aggettivo serve: serve a chi si mette la casacca della polizia, a chi sostiene, anche solo metaforicamente (e sarebbe già ben grave), che si deve “marcire in carcere”. Tornare a parlare di “assassini comunisti” fa venire in mente chi ha sostenuto che i comunisti governavano praticamente ogni ambito dello Stato, confondendoli opportunamente con quelli che avevano archiviato il comunismo nel 1989 e trasformato il PCI in PDS.
“Il popolo crede alle menzogne, specialmente se sono fantastiche“, faceva dire Mervin LeRoy in “Quo vadis?” al disincantato Petronio che assiste all’assalto della Domus aurea da parte del popolo fuggente dalle fiamme in cui divampa Roma e che cerca di convincere il nipote della verità di questa asserzione.
E’ vero, il popolo ci crede e, siccome non ha coscienza del modo in cui vive, del perché vive in questo modo, accusa i migranti di essergli ladri di futuro, accusa i rom di essergli ladri di beni preziosi; ed ancora accusa “la sinistra”, genericamente data, di essere la causa principale dei mali in cui versa il Paese. E come dare torto al popolo su questa ultima affermazione, sebbene sia parziale anch’essa e tutta da contestualizzare, se per anni i mezzi di comunicazione hanno spacciato per “sinistra” il PD e i vari alleati che vi si sono accovacciati ai piedi?
Come è evidente serve prima di tutto un rinascimento culturale in Italia. Un recupero della coscienza di classe non è concretamente possibile se non facendo affidamento a due eventualità inscindibili: il fallimento del governo giallo-verde (che non riuscirà a risolvere la contraddizione economica e finirà per dover scegliere se salvare il proprio potere o salvare la povera gente) in seguito ad una crisi sociale così grande da superare il livello della già temuta “stagnazione”, segnalata dal ministro Tria pochi giorni fa.
Ma possiamo noi, ancora una volta, stare ad aspettare che sia la miseria a spingere i proletari moderni ad avere un sussulto di voglia di uguaglianza, giustizia sociale, pace e libertà? Possiamo essere così cinici?
Non possiamo. Ma altrettanto difficile è affidarsi ad una volontà che abbiamo ma che non riusciamo a far volare, a rendere libera di esprimersi perché oggi rifiutata come effimera, inutile, trascurabile per chi non ha coscienza di sé, del proprio ruolo nel contesto sociale ed economico in cui vive.
Dunque, siamo ancora in una fase di resistenza. Del resto, se non ci fossimo, noi comunisti, sarebbe davvero finita qualunque speranza per questa umanità così disumana, così vuota e priva di riferimenti culturali, politici, morali.
Ecco perché continuiamo ad esserci e, in una paurosa minoranza, a dire che le carceri sono funzionali soltanto in questo sistema capitalistico e che una civiltà degna di questo nome dovrebbe considerare le carceri come frutto di una propria cattiva, pessima coscienza e non il trionfo di una virtù “umana”.
Oggi, cento anni fa, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht venivano massacrati dai soldati del governo socialdemocratico della appena nata Repubblica tedesca. Oggi, come cento anni fa, c’è chi massacrerebbe volentieri i comunisti per far spazio semplicemente al potere, alla stabilità del medesimo nella bellissima società dello sfruttamento e del profitto.
Oggi, come cento anni fa, vale la pena ricordare Rosa e Karl con questa riflessione della grande dirigente comunista, a proposito di cultura e crescita di coscienza critica e sociale:
“La libertà è sempre soltanto la libertà di chi pensa diversamente. Non per fanatismo per la «giustizia», ma perché tutto quanto vi è di istruttivo, di salutare, di purificatore nella libertà politica dipende da questo modo di essere, e perde la sua efficacia quando la «libertà» diventa privilegio.“. (da “La Rivoluzione russa, un esame critico”, 1918, postumo 1922).
MARCO SFERINI
15 gennaio 2019
foto tratta da Pixabay