La forma sinuosa dell’esistenza

Biancamaria Frabotta, «Tutte le poesie (1971-2017)», per Mondadori. Una raccolta ragionata che va dalla passione dei primi componimenti fino alle ultime sillogi. L’autrice ha sempre insegnato la poesia contemporanea come fosse antichissima, con lo stesso rigore che impongono i frammenti dei Greci e gli immortali apologhi divini dei Latini

Ogni tanto (ma accade così di rado) la nostra editoria poetica partorisce un libro davvero necessario a ogni autentico lettore di versi, a ogni mente innamorata della lingua, a ogni testa leggera. E allora non si può che scriverne, dirlo a tutti, magari sul giornale. Su questo giornale, esattamente quarant’anni fa, una ricercatrice della Sapienza di Roma, da poco trentenne, annunciava l’uscita in italiano delle poesie di Ingeborg Bachmann, che cinque anni prima era morta, proprio a Roma, nel sonno, bruciata in un incendio come una riluttante guerriera vichinga, un’eretica, una strega. In testa all’antica pagina del manifesto, oggi restituita dai lucori dei microfilm, figura un unico verso scelto dalla redazione per invitare, con lo stesso corpo del titolo, alla lettura: «Cosa più bella sotto il sole non vi è che starsene al sole».

La ricercatrice, che aveva da poco pubblicato la prima importante antologia di poeti donne in Italia e un esordio poetico inclassificabile, era Biancamaria Frabotta, e quel verso di Bachmann lo avrebbe trasfigurato poi in uno suo (di ancora più splendente evidenza, se posso permettermi) proprio viaggiando verso l’America, in un aereo libro il cui titolo, Appunti di volo, fu poi rubato da un programma radio della Rai. Aveva pochi anni più di noialtri millennial d’oggi e già era maestra di titoli Biancamaria Frabotta: il libro precedente si chiamava Il rumore bianco, come il capolavoro postmoderno che Don DeLillo avrebbe però firmato solo nel 1985.
Carmelo Princiotta, forse il più fine lettore di questa maestra, si era già accorto della minima genealogia di emistichi un anno fa, commentando su una rivista spagnola tre testi nuovissimi di Frabotta suggellati, all’ultimo passo, da un esergo che rilancia il verso generato da Bachmann. «Sotto al sole», aveva scritto la volante ricercatrice fresca di stampa – e riscriveva ora la poeta di fama, la celebrata cattedratica, la traghettatrice di dubbi tra secoli e millenni – «non c’è altro che il suo calore».

Chi è questa donna che apre e chiude quasi dieci lustri di meditazioni poetiche raccogliendo, nei minimi e assoluti termini della termodinamica, della fotosintesi e dell’ordine apollineo, tutta l’umanità, tutta la vita, tutti i fenomeni biochimici che variamente quaggiù rinominiamo amore, malinconia, nostalgia, morte? A chi appartiene questa pubblica e schiva intelligenza che chiacchiera con gli dèi e con gli eroi, si preoccupa per il destino delle galassie e dei talami, conosce la lingua delle bestie e degli alberi e della fisica, ci scrive dalla Russia, dall’Amazzonia, dalla Casilina vecchia, dai cieli atlantici, dal Novecento?

Chi risponde, nei cinque libri appena raccolti da Mondadori (e negli altri scritti di lotta e critica e narrativa, nei giornali, nelle riviste, nelle lezioni, nelle note dalla specola postrema di facebook che la bibliografia ci comanda di andare a cercare in biblioteca e in emeroteca e in rete) a questo nome, Bianca?
Il volume che la gloriosa collana dello Specchio ci propone in risposta – Tutte le poesie (1971-2017), (Mondadori, pp. 440, euro 20) – non è davvero una risposta: è la forma più completa e definitiva (per ora) della domanda stessa, un’esibizione di credenziali e di appunti che resta inquietamente irrisolta, come ogni ricciolo interrogativo che valga la pena di issare su un punto. «Nessuno mi fa domande» si legge nel congedo autoscopico che lo chiude, scritto nella forma dialogica che un tempo si usava per capire (per spiegare) le cose difficili. «A nessuno» dichiara di appartenere «intera» la voce di poetessa all’inizio; «dietro/me non c’è nessuno» dirà poi, soprappensiero, alla frontiera. «Di nessuno» è la terra cui teme di essere destinata la memoria testimoniale che il libro-domanda lo ha scritto, mondato, e infine «donato/perché stagionale sia la quiescenza». Come rincuora pensare che Nessuno è, d’altro canto, lo pseudonimo di Odisseo, che nella nuova traduzione omerica di Emily Wilson è diventato, da politropo di multiforme ingegno, «a complicated man».

Frabotta è un’autrice complicata, che sfugge sistematicamente alle inquadrature, alle generazioni, alle definizioni. La sua poesia tuttavia, pur spesso complessa, non è complicata affatto – non, almeno, nel senso in cui sono complicati i versi ispirati e respingenti degli orfici, i concetti degli sperimentali, le mendaci semplicità di neoromantici, antilirici e prosastici.
Una luminosa coscienza critica sorveglia le quasi cinquecento pagine della sua raccolta fitta e ariosa, finemente stabile come una struttura giapponese di legno e di carta. Curare il proprio libro è una faccenda ardua, un esercizio di seria ironia che è riuscito perfetto a Petrarca e a pochi altri. Che fortuna abbiamo a vivere in un tempo in cui la poesia si trasforma, si angoscia, si crede vinta eppure ancora si presenta, per noi, sullo scaffale. Frabotta ha sempre insegnato la poesia contemporanea come fosse antichissima, con lo stesso rigore che impongono i frammenti dei Greci e gli immortali (non eterni) apologhi divini dei Latini. Allo stesso modo ne ha scritto, allo stesso modo l’ha scritta: una poesia che ci è contemporanea senza banalmente rispondere alle contingenze.

Se c’è una cifra di contemporaneità stringente nei quarantasei anni di ricerca poetica radunati e riplasmati da questa ragazza del Quarantasei, bisogna cercarla in quelle fantasie di allontanamento progressivo dall’ovvio soggetto maschio, umano e occidentale che fu consegnato dalla modernià alla generazione del Sessantotto: nell’interesse estroverso e virgilianamente pietoso per gli altri che andava generando, nelle teorie letterarie, la parabola della differenza di genere e di sessualità, della subalternità gramsciana ripensata da Spivak, del postumano, dell’ecocritica, degli animal studies, della thing theory – tutte le migliori conseguenze del secondo femminismo e della rivoluzione postcoloniale. Partendo da Lucrezio e raggiungendo la materia vibrante e organica su cui oggi si interrogano grandi teoriche della politica e dell’estetica come Donna Haraway e Jane Bennett, questo libro sgrana un laico rosario leopardiano di lucidissime preoccupazioni: dal silenzio delle donne, nello iato tra Saffo e Woolf, a quello della selvaggia vitalità delle piante che seduce le nostre mani mortali e i nostri occhi di contemplatori. Ma basta astrusità critiche, bisognerà pur raccontare qualcuna delle meraviglie dell’ultima silloge, quella che prima di questa raccolta era inedita: La materia prima.

Si apre con un miracolo: la protagonista doveva morire in ospedale e invece la sveglia il proprio nome (un destino), pronunciato senza titubanze dal suo amante: «Non stai morendo Bianca». E il nome agì, diceva Montale. Come se Orfeo, alla fine, avesse mancato di voltarsi, a Euridice tocca inaspettatamente di vivere (di invecchiare dunque, recalcitrante Lady Lazarus), di occuparsi del corpo e non più solo della propria ombra. I primi componimenti mappano una malata anatomia come ultimo continente ignoto e passano poi all’anima, questa sconosciuta, il cui nome si pronuncia senza imbarazzo solo nella vera poesia.
È come se tale sorpreso auscultarsi fosse un tirocinio per gli incontri successivi – con un cavallo stramazzato ma sabiano, con cinghiali di bronzo e di carne, con un fruttivendolo cieco. Frabotta indaga l’istinto, l’intelligenza senza memoria (senza pensieri) conservata nei geni attraverso il lungo tempo di Darwin. E in un meraviglioso manifesto di femminismo letterario, poco più avanti, combina tale indagine con la storia della scrittura delle donne, raccontata in seconda persona plurale e pervasa dalla voce antilogica dell’inumano canto di cui ragionava Cavarero. Animali e voci sono gli ingredienti principi fino al lirico documento partigiano nell’intermezzo. E poi il microscopio (il telescopio?) torna a fuoco, e la materia primigenia si rivela per nulla metafisica: Frabotta si affaccia fin dentro alle cellule per parlare di storia e natura, di fede e verità, del corpo che i molti corpi del popolo, «santa canaglia», non governano con lucidità di mente in questa età di populismi.

L’ultima poesia prima dell’envoi si chiama Plasma, ed è quella che riconduce al verso di Bachmann sul calore del sole che fa tutto vivo e tutto finirà per bruciare. Leggendola, la mente corre alla genesi atea che appare all’improvviso, senza spiegazione, nell’Albero della vita di Terrence Malick (uno sparuto dinosauro adolescente sul greto di un fiume), e alla trascendente biopolitica di un filosofo che questa autrice biopoetica potrebbe consigliare di leggere: Giorgio Agamben. In una stagione di nuovi bilanci critici, in cui pare che il 1971 abbia definitivamente sparigliato le carte e chiuso per sempre l’epoca della poesia a voce piena e senza sgambetti d’ironia, Tutte le poesie di Biancamaria Frabotta, coi suoi palindromi termini cronologici ’71-’17, ci offre l’occasione di ripensare il presente e il recente passato come stagioni in cui lo stile, la testimonianza, persino la verità, sebbene non provata, avevano (hanno) cittadinanza.

ALESSANDRO GIAMMEI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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