Uno degli effetti della moderna fase multipolare della globalizzazione neoliberista è aver rotto la gabbia tanto del bipolarismo storico del vecchio ordine mondiale, quanto della pretesa unipolare statunitense che, repubblicani o democratici al potere in questi ultimi trent’anni, è stata la linea di strategia geopolitica della Repubblica stellata.
Il fallimento di quest’ultima, di cui il trumpismo si è reso ben conto, non è dato solamente da una crisi verticale interna alle e nelle istituzioni statunitensi. Soprattutto attiene ad un mutamento davvero repentino delle condizioni di inviluppo del capitalismo nelle interrelazioni tra i poli in competizione.
Se poniamo lo sguardo sulle guerre in corso che oltrepassano i confini regionali cui, invece, soggiaciono molti altri conflitti (tanti di quelli africani, ad esempio…), ci possiamo rendere conto abbastanza facilmente che sono d’impiccio per un’America yankee che, nell’ottica della filosofia MAGA, pretende uno “splendido isolamento” in politica interna ma con il supporto di una politica estera da rivoltare come un calzino: l’obiettivo è la zona del Pacifico come nuova area di sviluppo dell’imperialismo a stelle e strisce.
L’obiettivo è Pechino: col gigante cinese vi è competizione concreta, a partire dalla riduzione del debito americano in mano al paese degli imperatori millenari.
Per questo Trump preme perché il conflitto in Ucraina sia velocemente risolto. E per questo stiamo assistendo in questi giorni ad una giravolta di posizioni che difficilmente, anche bravissimi, competenti e seri analisti avrebbero potuto prevedere con contezza di causa.
In meno di quarantotto ore, il presidente-magnate ha scaricato Kiev, ha dichiarato che il presidente Volodymyr Zelens’kyj è un comico di basso livello, una sorta di fallito politico, un capo di Stato che si regge sull’appena quattro per cento del consenso popolare e che, quindi, governerebbe con metodi dittatoriali. La prossimità della fine, se non s’era capito, è per l’uomo di Kiev dietro l’angolo: Trump ne ipoteca la successione nel nome di Putin.
La distanza posta da Biden e Harris nel nome dell’antitesi tra democrazie occidentali da un lato ed autocrazie orientali dall’altro si sta progressivamente riducendo ad un confronto in Arabia Saudita dove si pongono le premesse per un nuovo governo delle rispettive economie di mercato; dove, quindi, più che la pace, si tratta per la spartizione dell’Ucraina, vero grande problema del post-guerra in un’Europa teatro di scontro tra due imperialismi che, finalmente, vengono entrambi allo scoperto e si mostrano per quello che realmente sono.
Ne subisce un duro contraccolpo la linea dell’etica di guerra portata avanti dal macronismo europeo che avrebbe voluto incarnare l’essenza del liberalismo democratico rispetto al male assoluto rappresentato dalla Russia.
Che Putin sia un autocrate anche spietato è certo. Che i suoi avversari facciano sempre (o quasi) delle fini poco piacevoli, mediante il polonio, con attentati classici o su aerei che esplodono e precipitano rovinosamente al suolo, è anche questo un dato di fatto.
Che la guerra l’abbia iniziata la Russia è, invece, storicamente parlando un dato opinabile: se si prende in considerazione il lungo conflitto nel Donbass, come per i palestinesi il conflitto con Israele non inizia il 7 ottobre 2023, così per gli ucraini la guerra moderna non inizia il 24 febbraio 2022. I pregressi sono di ampia portata ed andrebbero studiati con cura. Senza per questo dover essere accusati di filoputinismo da un lato o di filojihadismo dall’altro.
Questo semplificazionismo banalizzante ha perso quel poco di retorica che si trascinava appresso come ragion d’essere e, oggi, dopo che Trump ha smargiassamente scritto a carattere cubitali su Truth che lui e solo lui è l’uomo della pace, il castello di carta delle ipocrisie dell’Occidente virtuoso, democratico ed esempio del bene universale per l’intero mondo è veramente precipitato vergognosamente al suolo.
Dovrebbe essere evidente che la guerra nella sua ultima fase triennale non è stata iniziata dall’Ucraina. Ma, quando ad esempio il Presidente Mattarella ricorda che da queste invasioni e aggressioni possono derivare conseguenze molto più gravi, si dovrebbe fare menzione del fatto che ad ogni azione corrisponde una reazione e che se Putin attacca l’Ucraina è perché vuole, fondamentalmente, contenere l’espansionismo dell’Alleanza atlantica e degli USA verso est.
Piccolo particolare: il cambio di colore alla Casa Bianca ha creato le premesse per una riscrittura della geopolitica statunitense. L’obiettivo non è più la Russia, ma la Cina e tutto l’indotto che le gravita intorno. Trump vuole la pace con Putin anche per separare una parte dei BRICS dall’influsso cinese, indebolire l’asse iraniano nel Golfo Persico e rimettere mano alla questione dei “Patti di Abramo” che, in tutta oggettività, si ripresentano oggi di stretta attualità nel momento in cui i colloqui bilaterali tra Washington e Mosca sulla questione ucraina si tengono nelle sale del potere della monarchia saudita.
Non c’è nessun dubbio sul fatto che Zelens’kyj sia stato non solo scaricato, bensì apertamente sfidato a farsi da parte nei prossimi mesi.
Il messaggio, per come è stato un po’ generalmente compreso, è sufficientemente chiaro: se non te ne vai da solo, ci penseranno comunque nuove elezioni a mettere al tuo posto un plenipotenziario di Mosca, con la garanzia che, oltretutto, la NATO resterà al di qua dei confini ucraini, mentre tanti appetiti occidentali si addensano come nuvole nere intorno a ciò che rimarrà di uno Stato reso fantoccio da troppe contraddizioni interne, intercapedine infelice tra Ovest ed Est in una Europa priva di una spina dorsale istituzionale e, quindi, di una politica internazionale degna di questo nome.
Dopo tre anni di aspri combattimenti, la vittoria di Trump segna la rivoluzione vera e propria di un conflitto che pareva dovesse durare per lunghissimo tempo. Che non è ancora finito ma che mostra oggi tutte le precondizioni affinché terminino almeno le ostilità: non sarà poi la pace che ci saremmo aspettati, perché sarà la sistemazione degli interessi reciproci sulla pelle di un popolo martoriato, di una nazione fatta a pezzi e su cui la trattativa per la spartizione delle terre rare è iniziata congiuntamente ai molto ipocriti colloqui di pace in Arabia Saudita.
Tutto, dunque, non sarà più come prima. Non fosse altro perché ogni sicumerica certezza crolla davanti alle piroette trumpiane, ai voltafaccia plateali che, del resto, erano comunque stati preannunciati nella campagna elettorale del magnate.
Su chi può contare ancora Zelens’kyj? Sulla risolutezza macroniana? Su quella di Starmer? E poi? L’elenco finisce già qui? I Ventisette sono quanto di più diviso, insintetizzabile e irreale vi possa essere se si parla di condivisione di una linea di condotta nel dopoguerra possibile, nella fine del conflitto probabile.
L’esclusione della UE dal tavolo delle trattative è una sconfessione del precedente, storico asse tra Bruxelles e Washington, unitamente alla NATO, nella linea di condotta della guerra. Trump tuona: troppe centinaia di miliardi di dollari spesi per una guerra che non doveva nemmeno essere iniziata e che il popolo americano, oltre agli interessi del governo per altre zone del pianeta, sente molto, molto lontana da sé stesso.
I dati di fatto, quindi, sono: il riavvicinamento tra Russia e Stati Uniti (nei protocolli di intesa tra i primi dettami c’è quello inerente la riapertura delle rispettive ambasciate nelle proprie capitali), la marginalizzazione dell’Europa al tavolo futuro delle trattative; il vero e proprio voltafaccia nei confronti del governo di Kiev che viene così lasciato solo ad affrontare una crisi in cui il fronte occidentali si disgrega come neve al sole.
La normalizzazione dei rapporti con Mosca diventa così il fulcro su cui poggia il vero nocciolo della questione: non una alleanza, ma un ridimensionamento, quand’anche un azzeramento, delle tensioni vicendevoli esacerbate dall’impostazione data al conflitto da Biden.
Se poi, al lato pratico, si presta attenzione a quello che accade sul campo, si noterà come la guerra sia prevalentemente svolta con l’utilizzo massiccio di droni di cui Kiev avrebbe un gran bisogno, così come di truppe fresche: uno dei problemi principali su tutta la linea del fronte è la sproporzione numerica tra l’esercito russo e quello ucraino. I comandanti di Zelens’kyj ammettono che, se si giocasse al modo delle vecchie guerre novecentesche, non vi sarebbe partita da tempo. Ma i droni permettono di evitare assalti all’arma bianca, così come le vecchie trincee o i posizionamenti di ingenti battaglioni.
Si guerreggia casa per casa, quartiere per quartiere. I droni scoprono piccoli gruppi di soldati, attaccano e fanno vittime senza che la linea del fronte si sposti più di tanto. Ma i russi avanzano giorno dopo giorno. Di poco, ma avanzano. Conquistano villaggi e sono decisi, su ordine di Putin, a riconquistare il fazzoletto di terra dell’oblast del Kursk strappato dagli ucraini in un tentativo di offensiva ben presto limitato e tenuto in scacco da una controffensiva però piuttosto latente.
Al tavolo delle trattative, è abbastanza lapalissiano, il Cremlino non vuole sedersi avendo ancora da riconquistare un pezzetto del proprio territorio. Potrebbe risultare non solo sconveniente ma, prima di tutto, un elemento di ricatto, di rivendicazione da parte di Kiev.
In pochi giorni, dunque, il disordine mondiale si è scatenato: non siamo più sicuri di nulla. Trump ha scompaginato tutto, sparigliato le carte, capovolto ciò che pareva consolidato da tempo e reso nero il bianco e bianco il nero. Nulla è più impossibile, perché tutto diventa drammaticamente probabile.
Questo strillare del conservatorismo di estremissima destra e stelle e strisce lascia presagire che la situazione economica statunitense non sia poi così forte come lasciano intendere i proclami targati MAGA. C’è una vena di disperazione per la perdita del ruolo unipolare che, ora, tenta la rivincita proprio inserendosi nell’area del pianeta dove gli scambi sono più fitti e dove i mercati si affrontano con più voracità: l’Asia, il Pacifico. L’Europa debole, fragile e divisa non è una buona notizia, ma non è a priori qualcosa di assolutamente catastrofico.
Per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, una palingenesi del Vecchio continente, fin dentro le stanze più economico-finanziario-bancarie recondite e decisionali, non significa la fine del progetto dell’Unione. Ne può nascere un nuovo assetto meno imperialista del precedente, meno bellicista, più sociale e condiviso.
Ma non saranno di sicuro il vecchio fronte macroniano o la nuova destra neonazista che fa capolino nelle elezioni tedesche ormai prossime a dare seguito a questo auspicabile cambio di rotta. Da un indebolimento può venire fuori una crisi drammatica della UE che sfoci nella valorizzazione degli estremismi nazionalisti; oppure una conversione dei Ventisette in qualcosa di veramente alternativo tanto all’asse neoliberista dell’Ovest quanto a quello dell’Est.
Così, ad occhio, è amaramente più facile credere alla risoluzione posticcia, interessata e ipocrita del conflitto in Ucraina, rispetto ad una Europa non più dei banchieri ma, finalmente, dei popoli…
MARCO SFERINI
20 febbraio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria