Mentre la CGIL rimette l’attenzione del mondo del lavoro sull’apertura di una fase critica autunnale che vedrà, tra l’altro, quella stagnazione economica paventata persino dagli industriali, quello che sa fare di meglio la politica di opposizione al futuro governo Meloni è arrovellarsi nel dibattito su chi primeggerà nel nuovo campo progressista.
Da un lato il PD che non decide di mettersi completamente in discussione, di ripensarsi ad iniziare dall’identità mancata, dal trasversalismo interclassista e dall’appena abbandonata ultra vicinanza all'”agenda Draghi” e alla contesa del neocentrismo (non affatto esclusa nel caso divenisse segretario un ex renziano come Bonaccini).
Dall’altro lato il Movimento 5 Stelle che, con un colpo di teatro eccellente, si situa nella manifestazione sindacale con un Giuseppe Conte che, obiettivamente, ruba la scena proprio a chi è il principale sconfitto della tornata elettorale ultima. Ma i problemi posti da Landini dal palco di Piazza del Popolo sono temi scottanti, impellenti e non procrastinabili con tatticismi di medio periodo per strategie di lungo corso.
Il rapporto tra una politica di sinistra nuova, moderata e radicale, con i corpi intermedi come la CGIL, è tema da affrontare prima di subito, perché il fronte di vigilanza repubblicana sui diritti tanto sociali quanto civili deve essere il più ampio possibile e deve trattarsi non soltanto di una opposizione preconcetta, ma di una critica costante e circostanziata di tutto quello che il governo Meloni tenterà di mettere in pratica.
Landini ha fatto bene ad affermare che il sindacato non deve avere pregiudiziali di sorta, perché qualche volta anche i peggiori governi corrono il rischio di fare qualcosa di buono per le classi sociali più indigenti e deboli.
Ma il rischio vero è che ciò avvenga sull’onda del mantenimento di un potere governativo che si affida alla propaganda per resistere alle contraddizioni cui andrà incontro e che, quindi, è disposto a spacciare per grandi conquiste sociali delle elemosine e delle prebende per far approvare controriforme strutturali che andranno a favorire i profitti e penalizzare, sostanzialmente, ancora una volta le composizioni dei salari e le dinamiche contrattuali.
Se il PD decidesse di trasformarsi in altro da sé stesso, scegliendo ad esempio una via laburista per la sinistra moderata italiana, altro non farebbe se restituire alla sua mezza natura socialdemocratica il valore che aveva all’inizio, prima che il veltronismo incitasse alla fusione tra Democratici di Sinistra e La Margherita.
In discussione andrebbe messa a tutto tondo proprio l’idea stessa di “centrosinistra” che è stata, fin dal principio, un adeguamento forzato prima e sfruttato poi per cavalcare un governismo che ha destrutturato il rapporto che esisteva tra un riformismo molto timido e quel popolo progressista che ancora provava a vedere nei DS prima e nel PD poi un qualche punto di riferimento politico-sociale.
Questa corsa verso un liberalismo presto tramutatosi in liberismo sfrenato, era iniziata, tra l’altro, con l’approvazione del “Pacchetto Treu” nel primo governo Prodi, con l’introduzione della flessibilità in un mondo del lavoro sempre più frammentato e parcellizzato.
Il risultato è stato l’aprire le porte all’ingresso nel mercato del lavoro di qualcosa che mai si era visto prima: la precarietà. Ciò che oggi è la tristemente nota regola che determina quell’esplosione di instabilità antisociale che si unisce ai tanti altri disagi fondanti le voci di “nuova povertà” contenute nel paniere dell’ISTAT e che, di anno in anno, vedono accrescersi percentuali e dati assoluti.
Dal centrodestra italiano sapevamo cosa attenderci: sostegno indiscriminato alle imprese e al privato, compressione dei diritti sindacali, del lavoro in generale e conservatorismo sul terreno dei diritti civili. Quindi, in sostanza, una politica esclusivista, individualista, fondata sui cardini del liberismo nato negli ultimi tre decenni del secolo scorso.
Ma dal centrosinistra di nuova generazione, dopo quello pentapartitico della cosiddetta “prima repubblica“, forse un po’ tutte e tutti ci attendevamo, pur nella illogicità antidemocratica della fine dell’era proporzionalista e della prepotente avanzata dell’alternanza tra poli opposti – favorita da quella legge elettorale che portava il cognome latinizzato dell’attuale Presidente della Repubblica – una dialettica parlamentare rinnovata e non alterata fino ad una inesorabile regressione e ultima scomparsa con i governi di “unità nazionale“.
Forse pensavamo che il berlusconismo fosse il fondo toccato, quello oltre cui non si può andare e da dove soltanto si può risalire.
Ci sbagliavamo. Tutti i tentativi fatti, nel nome della difesa della democrazia repubblicana e della Costituzione, per battere le destre da posizioni di centrosinistra, sono terminati con un ulteriore tassello di peggioramento complessivo aggiunto al puzzle che ha composto, negli anni di maggiore crisi pandemica, economica e oggi anche bellica, il contesto ideale per una intersezione di circostanze che hanno prodotto l’attuale contingenza.
La fine del PD, dopo i primi alti tassi di sconforto post-voto, viene già archiviata da una discussione della direzione nazionale durata nove ore e dove, in sostanza, si è deciso di aprire la fase congressuale affidando alla scelta del segretario tutto il potenziale risolutivo dell’attuale situazione di stallo: in pratica, si è stabilito di non riconsiderare proprio quella simbiosi tra due culture della politica italiana che hanno creato l’anomalia tutta nostra di un partito che non è mai stato né veramente solo di sinistra e né veramente solo di centro.
Non si sarebbe trattato di un guaio per tutta la sinistra, e in parte anche per il centro, se i democratici avessero saputo nel tempo costruire veramente una identità politica del partito che corrispondesse ad uno speculare riconoscimento dello stesso da parte delle classi popolari moderne.
In sostanza, da parte di un mondo del lavoro che non fosse chiamato al voto solo per battere le destre, ma pure per affermare un programma di giustizia sociale, di ridimensionamento delle pretese del mercato e del capitalismo italiano, nonché di quello europeo.
Invece il PD è stato in tutti questi anni un ibrido, l’indistinguibile per eccellenza, l’ambiguità politica per un popolo di riferimento che si andava smarrendo attraverso la forza centripeta del populismo pentastellato prima e del sovranismo salviniano poi. La parentesi lunga del renzismo non ha, del resto, fatto altro se non acuire questa problematica di riconoscibilità di un qualche elemento di sinistra e di progressimo in un partito che non ha recuperato nemmeno con Gentiloni e Letta.
I “fattori esterni“, siamo d’accordo, hanno contribuito ad impedire che in Italia prendesse corpo una nuova sinistra come in Francia, in Spagna e in altri paesi europei.
Ma la responsabilità prima è della dirigenza del Partito Democratico, che è rimasto di sinistra in merito alla difesa dei diritti civili ed è diventato di destra nello scegliere il campo dell’adeguamento ai princìpi liberisti, mettendosi a disposizione per la formazione e il sostegno primo di governi che sono stati, financo con l’ultimo esecutivo di Draghi, il pilastro delle garanzie di privilegi a tutto discapito del mondo del lavoro e delle crescenti povertà.
Al contempo, nell’occupazione degli spazi della politica sociale da parte di soggetti come il M5S e le destre, venivano via via ridimensionandosi le possibilità di edificazione di una alternativa tanto al centrodestra quanto al centrosinistra da parte di un progressismo radicale e di alternativa, critico senza se e senza ma nei confronti delle torsioni governiste e del compatibilismo sposato in tutto e per tutto da chi veniva etichettato dalla grande stampa nazionale come “sinistra“.
Una eredità del raffronto tra berlusconismo d’antan che si piccava di tacciare della bolla infamante di “comunismo” e di “comunista” chiunque fosse dalla parte opposta. Popolari di sinistra compresi.
Il programma sindacale che Maurizio Landini ha enunciato dal palco di piazza del Popolo a Roma non potrà incontrare il favore di una forza di sinistra se questa pretenderà di rappresentare sempre e comunque un interclassismo che metta insieme interessi dell’imprenditoria e ragioni e diritti del mondo del lavoro.
Questo occorre dirselo in tutta franchezza, soprattutto oggi, dopo che il voto del 25 settembre ha aperto, nel disastro complessivo dell’esito che ne è uscito, una serie di domande, dubbi e critiche che non si sentivano da tempo immemore.
Insieme alle lotte sociali rivendicate dalla CGIL, ad iniziare da un salario minimo orario di 10 euro per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, dalla tassazione al 100% degli extra-profitti delle grandi imprese, della limitazione sempre più necessaria del carattere precario del lavoro, puntando ad un ritorno del contratto collettivo nazionale, deve avere il suo spazio il ripristino di un carattere “proporzionale” della rappresentanza parlamentare e, quindi, di tutto l’architrave istituzionale della Repubblica.
Ogni assemblea, parlamentare, regionale e comunale, dovrebbe ispirarsi a questo criterio, visto che, oltre tutto, il risultato elettorale ci consegna una frammentazione nemmeno più tripolare, ma quadri/pentapolare.
L’esclusione dalla vita politica del Paese di milioni e milioni di elettori che, dopo aver espresso il loro voto, vedono le loro forze politiche escluse dall’accesso alle Camere per una soglia di sbarramento imposta per determinare maggioranze più ampie del consenso che realmente ottengono, è un vulnus per una democrazia che è osservata speciale in Europa.
La fine del centrosinistra, il superamento del PD e il ritorno al sistema proporzionale sarebbero tre conquiste importanti per permettere ad un vero fronte progressista di affermarsi, per ridare all’Italia la dignità di avere un pluralismo politico e culturale che si riprenda l’orgoglio di possedere più ideologie su cui immaginare e voler costruire il Paese del presente e del futuro e, infine, per ristabilire l’equipollenza del voto, del diritto che ci permette di esercitare quella “sovranità” che la Costituzione affida a tutti noi e non alla parte che prevale per maggioranza.
Perché quando i diritti delle minoranze vengono ritenuti trascurabili, quando si può fare a meno della voce e dell’impegno di chi la pensa diversamente in mezzo al grande coro di “salvezza nazionale“, allora si è già fatto il primo passo verso una modificazione radicale della forma repubblicana parlamentare.
L’ombra del presidenzialismo, alla fine, altro non è se non l’ultima casella di un pericoloso gioco in cui gli interessi delle grandi imprese si sposano con quelli del neoconservatorismo e delle forze reazionarie moderne.
Compito di una sinistra rinnovata, ritrovata e rifondata dovrebbe essere quello di prevenire piuttosto che di curare. Ma ormai è tardi. Quello che è possibile fare è non inciampare, ognuno, negli errori del recente passato. La strada tracciata dalla CGIL è un buon viatico, una bussola per rimanere dalla parte giusta: quella di chi è sfruttato perché non possiede altro se non la propria mente e le proprie braccia per poter sopravvivere.
MARCO SFERINI
9 ottobre 2022
Foto di Element5 Digital