La finalizzazione dell’essere nella critica del giudizio kantiana

Sarà capitato anche a voi di avere, oltre ad una musica in testa, anche l’immagine di un tramonto o di un’alba, di un cielo stellato sopra sé stessi e...

Sarà capitato anche a voi di avere, oltre ad una musica in testa, anche l’immagine di un tramonto o di un’alba, di un cielo stellato sopra sé stessi e sentire la legge morale entro noi medesimi. Di fronte a tutto ciò, stupore, meraviglia, emozioni e commozioni si sono senza dubbio avvicendate e ci hanno per alcuni versi ridotti a qualcosa di infinitamente piccolo e insignicante e, per altri, ci hanno invece elevato alla consapevolezza di essere i soli esseri nell’universo da noi conosciuto a poter avere contezza di tutto questo.

Scienza e coscienza si sono più volte mescolate, comprese in una simbioticità che include tanto i desideri di altezze innaturali che ci proiettino nell’empireo un po’ platonicheggiante dall’empirismo invece epicureo, quanto la straordinarietà della conoscenza che fuoriesce dal dubbio, stimolo incessante e a volte anche impertinente (e per questo profondamente sagace) di una voglia di superamento di sé stessi che è progresso tanto materiale quanto più sottilmente spirituale, endogeno e misterico in eguale misura.

Siccome l’essere umano (ma forse potremmo azzardare nel dire, più latamente, l'”essere vivente e senziente“) possiede una capacità di discernimento tanto su sé medesimo (autocoscienza) quanto su ciò che lo circonda (coscienza e percezione dell’essere), ha sviluppato una intellettività sempre più acuta e adeguata ai tempi che ha saputo trasformare e antropocentrizzare (procurando al pianeta ed agli altri animali non umani non pochi problemi…), razionalizzando ma mantenendo un certo equilibrio tra ragione e sentimento, tra pragmatismo materiale e idealismo più romantico.

Parimenti, però, ha dovuto constatare di non essere fatto soltanto di razionalità e pulsioni emotive, ma di possedere anche quella particolare capacità di valutazione tra ciò che è bene e ciò che è male. Immanuel Kant definisce come “ragione pratica” questa attitudine alla distinzione etica e, tuttavia, riconosce che l’essere umano non è dualisticamente altalenante tra questa ratio e quella che definirà “ragione pura“.

Ciò che il filosofo di Königsberg intendeva sottolinere, riguardava la terzietà dell’importanza della cosiddetta “critica del giudizio“, ossia il potenziale emotivo dell’essere umano in grado di trarre valutazioni dalle proprie sensazioni, frutto a loro volta dell’incontro tra noi e la natura, tra noi e gli altri esseri viventi, tra noi e l’interità impenetrabile, e proprio per questo tremendamente affascinante, dell’Universo.

La critica del giudizio kantiana, quindi, fa riferimento a tutta una vasta gamma di argomentazioni che non pretendo di risolvere le questioni che vengono poste, osservate e studiate. Qui c’è il limite consapevole e perfettamente conscio dell’imponderabile perché intrinsecamente immanente nell’esistente che ci comprende e ci include. Noi siamo, dunque, parte del mistero ma abbiamo la capacità cosciente, autocosciente, razionale e critica di poter indagare il mistero medesimo.

L’argomento teleologico farà, come vedremo, qualcosa di più del capolino nella composizione del “giudizio” che Kant elaborerà in due differenti tipologie: estetito e, per l’appunto, finalistico. Mentre quelle scientifiche sono valutazioni prettamente “determinanti“, perché attengono ad una prova data dalla dimostrazione della ripetizione uguale degli eventi nel corso delle mutazioni della materia secondo leggi di natura di cui non si conosce però quella che, in un certo qual mondo, potremmo definire l'”induzione primaria“, le valutazioni della critica del giudizio sono “riflettenti“.

Kant le chiama così perché, obiettivamente (quindi rispondendo ad una regola naturale di oggettività manifesta e non determinata dal nostro cosciente ma, se vogliamo, subita dall’essere pensante e osservante l’esternità da sé stesso) inducono alla riflessione, al pensamento, sulla base dell’esperienza singolare che, per quanto tale, può naturalmente essere messa a confronto con altre, stabilendo pertanto un comune sentire in merito agli eventi magnifici del mondo.

Mentre un esperimento di laboratorio sulla gravità, fatto con metodo scientifico, ci riporta sempre lo stesso risultato e ci descrive il comportamento della materia senza possibilità di interpretazione soggettiva, la visione di un’alba, per quanto possa rientrare nell’oggettività del campo visibile, ai nostri occhi e dentro la nostra proiezione mentale successiva del ricordo, sarà da ognuno vissuta come un’esperienza prettamente singolare e unica. Se osserviamo uno stesso fenomeno naturale, quindi più di un’alba, giorno dopo giorno, le nostre emozioni potrebbero mutare.

Ed anche l’alba, nonostante il sole sia sempre lo stesso, la terra pure e noi anche. Ma siccome, sappiamo nulla in nessun momento è mai del tutto uguale a sé stesso, paradossalmente ne dovremmo concludere che anche gli esperimenti scientifici non sono perfettamente dimostrativi di una oggettiva sicurezza, di un cento per cento che ci garantisca il meccanicismo degli eventi date delle premesse sempre uguali (o simili).

Se usciamo dall’infido campo dei paradossi, risulta inaccostabile, in quanto a dimostrazione scientifica, l’esperimento di laboratorio con l’emozione che proviamo nell’assistere ai tanti eventi e spettacoli che la natura ci offre e ci fa vivere. Il giudizio determinante, dunque, non potrà mai essere anche un giudizio riflettente e viceversa. Cos’è che più di tutto consente di comprendere le differenze tra scienza e coscienza, tra razionalità tendente all’assoluto (ma impossibile per via della insolubilità della continuità del dubbio) e un idealità un po’ romantica dell’esistente?

Per l’appunto – sostiene Kant, e noi con lui – il “giudizio estetico” che riguarda qualcosa che ha a che fare molto di più con l’intuizione rispetto all’oggettività. Ciò che la nostra mente elabora è il frutto della mediazione sensoriale che, difficile poterlo confutare ormai, ha un tasso di soggettività piuttosto alto. Noi giungiamo anche a conclusioni oggettive nel momento in cui studiamo l’esistente, ma partiamo sempre da considerazioni singolari che abitano in noi e che sono frutto di una serie di conoscenze premeditate.

Il giudizio estetico inferisce, perché arguisce, un tratto distintivo del rapporto tra soggetto e oggetto e fa della bellezza uno dei punti cardine della valutazione che possiamo esprimere soprattutto nei confronti dei nostri sentimenti suscitati dai canoni che, con troppa solerzia, definiamo presuntuosamente “universali” quando parliamo di bello e lo associamo anche, eticamente, al giusto. Non tutto quello che è bello può avere anche carattere di giustezza: così come non tutto quello che è naturale può, se lo raffrontiamo al nostro sopravvivere e vivere, esserci conveniente, amico, utile e, quindi, bello.

Bruttezza e cattiveria, bellezza e bontà sono compenetrabili e distinguibili a seconda delle circostanze, ma questa contraddizione (almeno apparente se posta sotto la lente della critica della ragione pura e della ragione pratica) non è ascrivibile ad un principio assoluto, proprio perché dipende dalle differenti e molteplici circostanze che informano la nostra esistenza entro un ambito globale molto più complicato rispetto all’entità singolare che siamo abituati a prendere in considerazione come metro del tutto.

Allora, una delle questioni che Kant si pone arrivati a questo punto, è l’oggettivizzazione del bello, visto che razionalmente possiamo discernere tra bene e male e stabilire che esistono delle categorie interpretative in merito. Ma per la bellezza? Che cosa è oggettivamente bello e cosa non lo è? Se il giudizio estetico non è prettamente un giudizio artistico, ma un metro di comparazione sensazionale (nel senso proprio del termine, riguardante le sensazioni) che riguarda noi e il tramonto, noi e un campo fiorito, noi e la straordinarietà della nascita della vita, il giudizio teleologico può prescindere dal nostro soggettivismo.

La finalizzazione dell’interità della natura è una sorta di intuizione primordiale, un pensiero innato, una forma mentis in parte giustificatrice di una percezione di impotenza di fronte all’enormità dell’esistente, dell’essere parmenideo, di quello che, invece, i credenti chiamano “Creato“. Qui non ci interessa aprire una dissertazione sull’esistenza sempiterna dell’Universo o sulla sua creazione da parte di un Essere supremo, di un Dio, di un Entità non meglio definibile e astratta.

Qui il punto è: esiste in tutto quello che vediamo, sentiamo e in noi stessi che ne siamo parte un processo finalistico? Siccome noi siamo, possiamo dirlo con un certo grado magari di approssimazione ma pure con la presunzione di avere una qualche ragione in merito, la parte della materia che è più progredita proprio perché autocosciente e cosciente di ciò che la circonda, è lecito presupporre che tutto l’esistente trovi nell’animalità umana e non il punto di finalizzazione ultimo?

Quindi: ciò che esiste ci farebbe un po’ da contorno, regolando anche le nostre esistenze; ma noi ne saremmo comunque i protagonisti. Si tratta, a ben vedere, di una idea anche pericolosa, perché è l’esponenzializzazione di un antropocentrismo che rischia la deificazione dell’essere umano, benché Kant non intendesse il giudizio teleologico per niente in questa declinazione. Per lui la concettualità di questo giudizio riguardava proprio soltanto l’oggettivizzazione della bellezza e la sua ascrizione ad un Creatore con la ci maiuscola.

La bellezza che il Nostro tenta di categorizzare, mediante il giudizio critico e teleologico al tempo stesso, è disinteressata, a-concettuale, conforme agli scopi di un oggetto ed è alla ricerca continua di una utilità comune che non prescinde dal piacere, dal godimento naturale di ciò che c’è e non dipende direttamente dalla volontà umana. Se io osservo una rosa rossa in un campo, il fatto di non possederla non farà venire meno la sensazione di bellezza che mi procura. Ed ecco il bello che non porta con sé alcun interesse per essere e mostrarsi in quanto tale.

Così se io ascolto una canzone che mi piace, che magari mi fa commuovere e mi regala dei bei momenti, non so esprimere razionalmente e, dunque, concettualmente, questi sentimenti: posso al massimo riferirli ad un dato momento, ma la particolarità di quei dati sentimenti rimarrà comunque sempre mia e soltanto affidata a quello che Kant non poteva conoscere, ma che oggi chiamiamo “inconscio” (e che rimane quell’io nascosto che ogni giorno ci crea e ci ricrea in continuazione, facendoci nascere e morire in una consequenzialità irrefrenabile dal conscio).

Ed ancora, se leggo una poesia e la trovo bella, è perché, probabilmente, anzi certamente, l’intento del poeta era proprio quello di esprimere la bellezza attraverso i versi e descrivendo qualcosa che egli ha reputato bello. Infine, la bellezza è l’espressione anche di una sensazione comune che somma e non annulla le singole meraviglie davanti alla natura. Lo splendore del sole, la vastità del mare, ma pure eventi estremi come un temporale possono essere, per quanto violenti, anche belli.

Qui si toccano le corde di quello che Kant definisce il “sublime” che riguarda, in prima istanza, la quantità del bello. Quindi ciò che è particolarmente attraente e fascinoso, tale da destare una estasiata meraviglia, si esplica in una traduzione etica che diviene sentimento morale. In questo preciso contesto noi ci sentiamo mediocremente piccoli rispetto all’eternità, infinità e impenetrabilità del mistero universale e, per esserne consapevoli, con una inversione proporzionale ci sentiamo anche enormemente grandi.

Ecco che il giudizio teleologico si esprime pienamente nella considerazione della natura come un insieme di fenomeni che rispondono a regole, ossia a comportamenti trasformistici della materia, che la scienza può tentare di comprendere ma non di risolvere dando un significato ultimo, trovando il perché l’Universo esiste e perché queste stesse leggi fisiche lo regolano per come lo regolano.

L’impossibilità di giungere ad una certezza in merito, spinge Kant a rispondere alla domanda che si è posto «In cosa possiamo sperare?» con una speranza stessa. Sperare di poter sperare che il tutto abbia una sorta di finalizzazione e che la limitazione mentale umana sia, quindi, per quanto autocosciente e consapevole della propria sublimità (qualitativamente intesa esattamente come tale) anche pienamente conscia del proprio limite: l’enigma sull’esistente resta e resterà per sempre.

MARCO SFERINI

22 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Il portico delle idee



#freepalestine



naviga con

altri articoli