Il gioco dell’oca ha terminato il suo giro. O forse lo ha soltanto iniziato. Dipende dai punti di vista. Il governo Conte, che si appresta ad andare in Parlamento per ottenere una fiducia certissima, ha delle caratteristiche politiche e tecniche ben precise: rassicura la voglia di securitarismo della gente laddove al ministero dell’Interno colloca Matteo Salvini (con funzione anche di vicepresidente del Consiglio dei Ministri a pari merito con Luigi Di Maio) e rassicura i mercati perché all’economia, al posto del contestatissimo Paolo Savona, mette il professor Giovanni Tria che condivide le posizioni del suo mancato predecessore e che sostiene la tesi uguale ed opposta: dovrebbe essere la Germania semmai ad uscire dall’Euro, non l’Italia, perché il suo surplus sulla bilancia commerciale farebbe saltare il sistema dei cambi fissi.
Ma, intanto, i mercati sono rassicurati, la borsa di Milano ottiene quasi tre punti in percentuale positivi e tutto va bene, madama la Marchesa.
Di contentezza ce n’è per tutti, a piene mani, a pieni polmoni, da illustrare e da dire: il governo intanto, ricordiamocelo, è “del Cambiamento” con la “ci” maiuscola, per antonomasia. Un cambiamento che già fa intravedere una stretta forte sulle politiche di solidarietà sociale (il ministero che fu di Paolo Ferrero, unico nel suo genere e nella storia della Repubblica, non fa parte del “cambiamento” sociale…), che inverte la rotta sotto molti punti di vista e che alcune innovazioni le ha già messe in campo e concretizzate prima ancora di nascere: ha definitivamente scombinato la coalizione di centrodestra con Forza Italia che voterà contro, Fratelli d’Italia che si asterrà e, naturalmente, la Lega che voterà a favore.
Centrodestra e centrosinistra, così come li abbiamo imparati a conoscere dagli anni ’90 in poi, sono definitivamente tramontanti. E se per il secondo la dipartita era più facile da pronosticare, viste le litigiosità a fini di potere politico rappresentativo di quello economico che si trascinavano da anni, che il secondo fosse sull’orlo di una tripartizione separatista non era assolutamente credibile, tanto è vero che all’ultima tornata elettorale più voci si erano levate sul risorgimento berlusconiano e sulla resistibile ascesa di Salvini come nuovo leader della compagine grigio-nera che pretendeva di candidarsi nuovamente alla guida del Paese e del suo governo. Non arrivando all’obiettivo per davvero pochissimi punti in percentuale e, tuttavia, per una impetuosa avanzata leghista che ha modificato non solo i rapporti interni ma le prospettive di alleanze per la creazione, per l’appunto, del governo che si è appena formato.
Un governo nero. Un governo nemmeno giallo-verde, proprio nero. Un governo che riunisce due forze apparentemente antisistema che inseriscono nell’esecutivo nomi di ministri già stati tali sia con Mario Monti sia con Enrico Letta.
Se davvero vuoi essere “rivoluzionario” nell’antisistemismo, allora compili una squadra di governo in totale discontinuità con il passato. Ma, si sa, la politica è compromesso e la purezza grillina, la presunta verginità politica del provenire da un nuovo assoluto, senza quasi avere un passato ma solo un futuro pieno di stelle davanti, si è infranta davanti alle esigenze del sistema dei mercati, alla paura del differenziale rappresentato dal mitico spread.
Otto tecnici in una squadra di ministri dove anche il presidente del Consiglio è un tecnico circondato da forti personalità (si fa per dire) come i capi politici dei due schieramenti di maggioranza e la figura più politica e disposta al dialogo della Lega, Giancarlo Giorgietti.
Un fortino che blinda Conte: il comitato di controllo c’è anche se non si vede.
E in questo desolante scenario che il Paese applaude (in larga parte, ma pur sempre minoritaria) aspettando il reddito di cittadinanza e la flat tax, aspettando una rivoluzione sociale che non verrà, non esiste la minima traccia di un elemento politico imprescindibile per il buon funzionamento della democrazia: l’opposizione.
Partito Democratico e Forza Italia escono con le ossa rotte da questi centoventi giorni di campagna elettorale prima e di formazione del governo poi. Il silenzio è più forte delle urla di disperazione: il silenzio è assenza totale di iniziativa, di critica compiuta, di prospettiva politica.
Una maggioranza così ampia, solida, fondata sul “contratto” di governo, senza una opposizione chiaramente distinguibile come tale e quindi come tale nominabile, è destabilizzante già di per sé per la democrazia. L’unico contrappeso che si trova davanti è la prerogativa del Presidente della Repubblica di rinvio delle leggi al Parlamento qualora non convincessero il Capo dello Stato sulla loro effettiva costituzionalità.
Ancora una volta il Colle rimane l’unico arbitro in difesa tanto della Carta quanto delle volontà internazionali di una economia che non impone diktat ma che li sussurra, li fa intuire, li fa percepire con i rialzi dello spread, con l’evitamento a comperare i titoli del debito italiano.
Così a sinistra ci si divide pure sull’interpretazione nella difesa del Presidente Mattarella e non si vede la svolta autoritaria che avvolge il Paese, democraticamente, senza troppi fronzoli da mostrare.
Francamente mi fanno più paura quelli che affermano: “Ma lasciamoli governare, vediamo cosa fanno” e lo dicono da uomini e donne di sinistra, rispetto allo stesso governo. Significa che si è persa ogni capacità critica di analisi, che ci si affida alla navigazione a vista, che per capire occorre aver prima subìto i fatti e non averli anticipati con una descrizione delle possibili conseguenze che una alleanza tra movimento 5 Stelle e Lega portano con sé per la storia che li contraddistingue.
Il 2 giugno è domani. Festa della Repubblica. Ma forse sarebbe meglio dire, avendo contezza di tutto ciò, che la festa la faranno alla Repubblica: laicamente intesa, sempre rispettando la democrazia apparente. Quella sostanziale è stata da troppo tempo e in vari modi oltrepassata. E della sinistra comunista, dell’alternativa nemmeno una flebile, vaga ombra… Attenti ad urlare “potere al popolo”: lo vedete il popolo che disastri che combina.
MARCO SFERINI
1° giugno 2018
foto tratta da Wikimedia Commons