Ieri sera Roberto Speranza, nella trasmissione “Politics – tutto è politica” in onda su Rai 3, ha espresso ancora una volta il desiderio, come sinistra interna del Partito democratico, di ridare vita ad un centrosinistra che abbia proprio nel PD l’anima di nuovo precursore di ciò che è già definitivamente morto e sepolto dalla concretizzazione del medesimo partito come soggetto politico “della Nazione”, come altro dal concetto stesso di centro e, tanto più, di sinistra.
A chi gli faceva notare, giustamente, che Renzi ha oltrepassato questo confine del passato, che l’ha posto più in là (avanti o indietro sono categorie che si adottano a seconda del giudizio politico che si dà del renzismo come nuovo metodo di interpretazione della stessa geopolitica democratica), Speranza rispondeva con l’aspirazione a competere con Renzi al prossimo giro di primarie per aspirare alla carica di segretario nazionale del PD: una proposta alternativa della minoranza (bisogna vedere se vi si riconosce l’intera frammentata “sinistra” del PD stesso…) a quella del monoblocco renziano.
Una idea di un Partito democratico di centrosinistra contro l’ormai consolidato PD oltranzista, che ha ampiamente scavalcato la trincea di difesa dei valori tanto del centro quanto della sinistra, tutto dedito alla protezione di una borghesia imprenditoriale e finanziaria che è l’espressione migliore o peggiore, a seconda dell’avversario che si trova davanti, di una società imbolsita, ferma, statica, bloccata su parametri ottocenteschi di difesa di privilegi che vuole fare invece apparire come espressione dal basso di riforme sociali.
Tutta l’azione del governo Renzi è stata volta a questo semplicissimo assunto: chiamare “riforme” delle “controriforme”, ossia degli arretramenti dei diritti sociali, delle garanzie di protezione dei redditi più bassi, costringendo quasi sette milioni di italiani sulla soglia di povertà.
Pensare di ricostruire il centrosinistra come luogo della politica e della società, come espressione di riferimento del progressismo italico, vuol dire non avere chiaro che il PD è già da tempo qualcosa di profondamente diverso da tutto questo: è un moloch che vorrebbe essere inamovibile, mutabile a seconda delle circostanze ma non trasportabile altrove da Palazzo Chigi.
Prova ne è il governo Gentiloni: una ricalcatura a matita di un disegno più marcato fondato su politiche liberiste che non intendono avere interlocutori socialdemocratici.
Il tentativo di sovvertimento della Repubblica democratica, di stravolgimento della Carta costituzionale appena respinto lo scorso 5 dicembre, è lì a perenne dimostrazione di questa volontà alpina e transalpina che pretende di legiferare con meno regole, con più decisionismo.
Il Partito della Nazione di Renzi a questo serviva e serve: credere di poter cambiare il PD può anche essere una nobile aspirazione di revanchismo socialdemocratico di sinistra, ma rimarrà soltanto quello.
La speranza di Speranza (il gioco di parole viene quasi tirato per la giacchetta del discorso) può avere un unico valore vero: quello di contare quanti nel Partito democratico sono ancora impregnati di una cultura, di una idea di società da riformare (non da rivoluzionare, per carità!) e quanti, invece, sono allineati con l’evoluzione (o involuzione che si possa dire) renziana.
Se in primavera, ad esempio, dovessero svolgersi senza intoppi i referendum proposti dalla CGIL sull’abrogazione di importanti parti del Jobs act, legge tutta quanta liberista, decomponente i diritti fondamentali del lavoro, cosa farà il Partito democratico? Qualunque maggioranza possa esprimere un congresso straordinario, si spaccherà: i sostenitori del “no” saranno Liotti, Del Rio, Boschi, Madia, Orfini, Giachetti e, appunto, Renzi e Poletti, mentre i sostenitori del “sì” saranno Bersani, D’Alema, Speranza, forse Cuperlo… Difficile poter schierare altri grandi nomi in un quadro ipotetico come questo.
Non esiste più possibilità di rimarginare una ferita che è insuturabile e che lo rimane se la cosiddetta “sinistra del PD” manterrà i propositi che ha espresso Roberto Speranza a “Politics”.
Perché non si può mai con certezza conoscere, nella intrepida velocità dei sommovimenti politici, quale direttrice sicura e certa possa sempre seguire una parte di un partito peraltro grande e con responsabilità di governo.
Governo che, non bisogna mai dimenticare, è espressione della maggioranza del PD.
Ipotizzando che la minoranza riesca a conquistare il partito, a fargli fare una torsione programmatico-politica di cento ottanta gradi e a riportarlo su binari pre-bersaniani, alla mai abbandonata maledizione di ricomposizione del centrosinistra, il rapporto col governo renziano di Gentiloni sarà tutt’altro che facile. E questo è un eufemismo nel vero senso del termine.
Il motto dice: “Le battaglie si combattono dentro al partito”. Dunque le scissioni sono escluse. Ma, se è vero che le scissioni sono spesso nocive, altre invece servono a fare chiarezza. Ammesso che si possa davvero ritenere di trovare un po’ di luce in fondo al tunnel liberista del renzismo dato per morto e che, invece, è solo finito al tappeto. Ma si rialzerà presto…
MARCO SFERINI
14 dicembre 2016
foto tratta da Pixabay