Spezzare la gambe. Spezzare le braccia. Spezzare il collo. O rompere il collo. Il risultato non cambia. Una frattura può determinare la fine di una vita o può invalidare a tal punto da rendere quell’esistenza un inferno, infrangere un futuro fatto di sogni, di speranze, di una costruzione comune con chi si ama, con le persone cui si vuole bene e magari si ritiene pure di poter dare una mano a migliorare questo mondo. Partendo dal proprio lavoro.
Spezzare le mani, anzi, le dita delle mani. Perché nell’estremità corporale c’è tutta la metafora fisica di una vendetta che qualcuno vuole compiere e che mira a rovinare la carriera ad un chirurgo. Lo chiameremo Alessandro. Ha 40 anni e ha da poco presentato il suo compagno alla famiglia. Sua madre ha una salute precaria e lui vuole che, qualora dovesse accadere l’irreparabile, lei sappia tutto di lui, lo conosca pienamente, per come è veramente e non per come appare.
Conosco quella voglia di Alessandro di non essere equivocato, scambiato per altro da sé stesso: l’ho vissuta sulla mia pelle, dentro ogni singolo poro, nel mio animo inquieto e turbolento di giovane ventenne che si accingeva a fare “coming out” coi suoi genitori. So cosa significa passare notti e giorni che si alternano e che rimangono uguali nel grigiore di un limbo in cui non vuoi stare ma da cui, allo stesso tempo, è così difficile venire fuori, uscirne per rivedere le stelle…
Ancora oggi si parla di “confessione” della propria omosessualità al resto del mondo. Invece dovrebbe essere un normale argomento di conversazione che, ad un determinato punto della crescita e della vita, saltapicchia nei discorsi familiari, amichevoli o parentali di qualunque tipo così come si può discutere della propria credenza religiosa, della propria formazione culturale, politica, filosofica, morale.
Si dovrebbe poter dire ai propri genitori che si è gay, lesbiche, transgender con la stessa naturalezza con cui si dice buongiorno o con cui si rivela il proprio amore per un colore o un fiore, un profumo o un particolare giorno dell’anno. Invece il “coming out” rimane un concetto positivo che conserva molto di negativo in sé, così come il concetto di “tolleranza” che è sopportazione e non socializzazione, condivisione di sentimenti e di spazi, di luoghi della mente e del corpo reciprocamente, senza più barriere pregiudiziali.
Alessandro, dunque, dice ai suoi genitori che è gay e presenta loro il suo compagno. Tutto pare andare bene per qualche tempo: gli inviti a cena sono frequenti e la reazione familiare pare quella di chi non considera il proprio figlio qualcosa di alieno dal momento in cui si è saputo che non prova attrazione per le donne ma per persone del suo stesso sesso.
Poi scatta qualcosa di inaspettato che tinge questa storia di nero e anche di giallo: il padre inizia ad essere violento, diventa ostile tanto al figlio quanto alla moglie. I coniugi si separano. La mamma sostiene Alessandro, il padre se ne allontana. Il dispiacere è grande, ma nulla fa presagire che la storia possa subire una involuzione assolutamente inimmaginabile.
Alessandro fa il chirurgo, usa le mani così come un pianista le usa per suonare. Sono la sua estremità più preziosa, quei confini del suo corpo dove inizia la sua vita lavorativa, dove prende espressione tutta la sua passione per la medicina, per la scienza: dove sembra finire l’essere umano materiale, inizia invece l’essere umano vivente, che si impegna ogni giorno per salvare vite, per creare un continuum tra sé stesso e la realtà che lo circonda.
Una mattina si sta recando al lavoro e viene avvicinato da un tizio che lo prende a male parole, lo minaccia. Di fargli del male, di spezzargli le dita. Lui, ovviamente, si spaventa. Lo sconosciuto gli dice che l’ha pedinato e lo ha fatto da molto tempo. Mostra quasi, per uno strano gioco del destino, una sorta di empatia verso il chirurgo e gli rivela una inquietante verità: «Tuo padre mi ha pagato per spezzarti le dita, perché sei omosessuale. Io non voglio farlo, sei una brava persona… Ma ho bisogno dei soldi…».
Si accordano: inscenano una aggressione, così l’uno ha le prove dell’assurda volontà paterna di farla pagare al figlio e l’altro può tenersi i soldi del misfatto mai compiuto. Ma non può finire così. Ed infatti la triste storia continua, Alessandro non sa che fare: parla con il suo compagno, con sua madre. Teme che il padre divenga personalmente violento. Finisce per vivere sotto scorta per alcuni anni. Gli amici lo aiutano: lo vanno a prendere al lavoro, proteggono la sua famiglia.
Poi decide di denunciare suo padre che agli inquirenti parla di voglia di vendetta, di non accettazione dell’omosessualità del figlio e scrive persino sui social la frase più famosa che riguarda proprio la vindicità: «Va servita come un piatto freddo». La condanna arriva dopo alcuni anni: due anni, patteggiati. Padre e figlio si parlano ormai solo tramite avvocati. Si potrebbe pensare di mettere la parola fine alla vicenda. Sicuramente a quella giudiziaria. Ma non è possibile chiudere quella sociale, morale, culturale che viene scritta dal racconto di Alessandro, dalle carte processuali e dalle cronache dei giornali.
Perché le domande si fanno avanti, spingono a riflettere sul rapporto anche tra genitore e figlio, ma prima di tutto sulla coscienza del genitore, su cosa risulti così tanto infamante per il “pater familias” da armare la mano di una persona terza affinché punisca il giovane chirurgo che ha come colpa soltanto quella di amare un uomo.
Per questa ragione gli si devono spezzare le dita? Per vendetta? Di cosa si deve vendicare il padre? Quale onta ha portato nella famiglia questo quarantenne, che salva vite in sala operatoria, che vede la sua vita minacciata dal risentimento di chi quella vita per metà gliel’ha data e che, forse, pretende di tenerla tutta quanta sotto il suo controllo? Che colpa ha Alessandro? Che diritto ha suo padre per ergersi a giudice dell’amore in assoluto, per stabilire che la sua morale è prevalente rispetto a sentimenti che lui non può vivere?
La proprietà privata delle vite degli altri è di per sé un orrendo prodotto del più vasto concetto di possesso, di dominazione, di potere in senso lato del termine. Lo esercita millenariamente il maschio, l’uomo di casa, colui che detiene per antonomasia la saggezza, il discernimento che non ha uguale in famiglia e che, pertanto, subordina il femminile e fa dei figli una propria protesi nel mondo che non può essere lasciata libera senza condizioni.
Si tratta di una forma inconscia di impotentia agendi, di castrazione emotiva, di disfunzione erettile dei sentimenti che non evolvono in amore genitoriale per ciò in cui i figli si trasformano, ma per quel che negano al padre che vi si identifica completamente e che vive su di sé qualunque loro mossa, azione, percezione e che, quindi, finisce col sentirsi lacerato da scelte che egli non farebbe e che, anzi, esecra, condanna in quanto per lui estranee completamente al modo di esprimere la propria sessualità.
Le spiegazioni possono essere tante, ma alla fine sedimentano sempre nel nostro inconscio e finiscono per produrre nella realtà fatti che sarebbero degni di rimanere solamente nell’assurdità delle immagini dei sogni, prodotto di liberi incroci di emozioni che si infrangono con la fine della deposizione della volontà in quel sonno che ci avvolge, ci ristora e ci spaventa molte volte.
Alessandro ha fatto bene a denunciare il padre, perché si può accettare la discussione, il provare a spiegare pazientemente cosa e come si vive, perché si provano emozioni, desideri e voglie diverse da quelle considerate “canoniche” e storicamente date come “normali” perché vissute dalla maggioranza del genere umano. Ma è inaccettabile, insopportabile e da respingere, senza alcun tentennamento, ogni tentativo di negare il diritto fondamentale alla pienezza della vita, dell’esistenza altrui, di procurare dolore, infelicità nel nome di una propria visione del mondo e dei rapporti umani che ripudia questi stessi e finisce per essere quell’assolutizzazione cieca e dogmatica che, in tante altre forme differenti, si esprime anche attraverso le parole.
Le parole non sono meno feroci delle percosse, del coltello o del bastone. Feriscono immaterialmente ma lacerano gli animi, lasciano ferite invisibili, tutte interne: sono le più difficili da rimarginare e non esiste sutura certa di riunire i pezzi rotti di un corpo che, ancora oggi, soltanto l’allontanamento e una nuova vita possono provare a regalare a chi ha subìto queste discriminazioni.
Le sfumature delle nostre personalità sono così tante e meravigliose che bisognerebbe invece guardarle con l’estasi di chi scopre continuamente qualcosa di sconosciuto, di straordinario che da misterioso diventa sempre più chiaro, evidente.
Invece le novità fanno paura, sebbene non siano più tali, sebbene si sappia da millenni che gli uomini possono amare altri uomini o donne, o entrambi; che le donne possono amare altre donne, che la sessualità può essere vissuta pienamente soltanto quando è davvero libera e priva di dettami moralistici e di anatemi e condanne frutto di consuetudini religiose e tradizioni laiche.
Non domandatevi, dunque, perché il padre di Alessandro ha potuto architettare un piano di vendetta. Domandatevi quale fosse la vendetta, cosa fosse ciò che il giovane chirurgo aveva sottratto al padre. La risposta a questa agghiacciante storia sta tutta qui: nulla, se non una idea di perfezione di sé stessi, di modello intangibile, ereditato dai propri padri e nonni che ci consegna quel potere che rimane, a tutti i livelli, «l’immondizia della storia degli umani», come canta pregevolmente Francesco Guccini.
MARCO SFERINI
16 dicembre 2020
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