Per la prima volta un Presidente della Repubblica Italiana ha presenziato all’assemblea annuale della Confindustria. E per la prima volta, probabilmente, i padroni, che anche se definiti “imprenditori” tali restano, hanno ascoltato alcuni cenni critici nei confronti di un “capitalismo di rapina” che è nemico tanto della stragrande maggioranza della popolazione, quanto dell’economia italiana in senso stretto.
Sergio Mattarella ha fatto bene a richiamare quei limiti della proprietà privata (soprattutto dei mezzi di produzione) che, pur necessariamente compresa nel dettato costituzionale, non può in alcun modo andare a scontrarsi con l’interesse pubblico, comune e collettivo. In realtà, la stessa esistenza del privato e del profitto significano sfruttamento della forza-lavoro, dell’intelligenza, di ogni qualità dell’individuo che non possiede altro se non le sue peculiarità per poter vivere.
La classe imprenditoriale, quella che un tempo veniva crudemente e realisticamente chiamata appunto “razza padrona“, è – come ha ricordato il Capo dello Stato – protagonista di uno sviluppo del Paese che, però troppe volte piega il valore sociale e pubblico della propria crescita ad un interesse meramente di parte: per l’appunto privato e, quindi, parziale, escludente, privilegiato.
Non è la prima che il Presidente Mattarella interviene per rendere evidente quello che evidente ha finito, col tempo, attraverso politiche di governo sempre più discriminanti e compromettenti l’assetto dei diritti tanto sociali quanto civili, per non esserlo più. Il tratto distintivo di una economia che tenga conto di un equilibrio tra diritti del lavoro e privilegi dell’impresa può sembrare – ed infatti è – un ossimoro, viste le evidenti contraddizioni di interessi di classe diametralmente opposti.
Eppure non è così scontato oggi che si alzi una voce in difesa di una classe lavoratrice e di un principio di comunità e di comunione dei beni altrettanto comuni. Tutto un neoideologismo smaccatamente liberista ruota attorno e ispira la narrazione di una politica che dà per scontata la necessità di mettere avanti a tutto l’esclusivo interesse delle imprese. Il lavoro rimane una variabile dipendente dalle fluttuazioni azionarie, dalle speculazioni finanziarie, dagli investimenti azzardati.
I dividendi aziendali sono il fulcro di una azione di governo che preserva il privato e penalizza il pubblico: precarizzando, separando gli interessi comuni dei lavoratori, lasciando i salari al minimo storico in una Unione Europea dove si alzano i tassi di interesse su prestiti, depositi bancari e mutui, dove si rende quindi la vita dei ceti più fragili e deboli un inferno senza fine.
Carlo Bonomi, nella sua ultima relazione introduttiva, ha mandato più di un messaggio ad una politica italiana, quella del governo Meloni, che si è rivelata incapace tanto di contenere il malcontento sociale che riemerge con forza, quanto di emulare il tecnicismo draghiano nella gestione del PNRR. L’attenzione di Confindustria è tanta anche riguardo la presuntuosa riforma istituzionale teorizzata e messa per iscritto da Calderoli.
L’ammonimento dei padroni è uno dei tanti j’accuse che la dirigenza dell’associazione degli imprenditori indirizza verso Palazzo Chigi: sono necessarie – dice il presidente uscente – «riforme che leghino governabilità e capacità di dare voce e rappresentanza alle tante istanze» di un Paese che è, anche dal punto di vista dell’impresa, letto, visto e interpretato come sempre più consunto, depredato da una congiuntura sfavorevole.
Va da sé che, se questa intersezione di fatti è di nocumento agli interessi dei padroni si potrebbe pensare che sia pure un bene. Ma la disgrazia dei nostri nemici di classe non sempre è direttamente la pseudo-fortuna della controparte, del mondo della lavoratrici e dei lavoratori.
La crisi economica riguarda, infatti, trasversalmente un ceto medio che ha smesso di fare da cassa di risonanza delle istanze dei più poveri, legandole alle proprie e conducendo una lotta comune contro la voracità dei ricchissimi; e riguarda pure quel padronato che deve fare i conti con l’espandersi di una concorrenza/crisi al tempo stesso che avanza dal remoto oriente perché investe tutto l’asse portante della finanziarizzazione nordatlantica.
Se la risposta della Banca Centrale Europea all’aumento del costo della vita, ad una inflazione veramente incontenibile, è il rialzo del costo del denaro, si comprende come questa soluzione sia di medio, breve, anzi brevissimo termine, perché risponde con una emergenza ad un’altra emergenza e non risolve i veri problemi strutturali tanto dell’Europa quanto dei singoli paesi che ne fanno parte.
Il progetto reazionario e conservatore dell’esecutivo di Giorgia Meloni non si adatta ad interpretare, in questo modo, pienamente le esigenze delle imprese che pretendono maggiori tagli del cuneo fiscale, una rimessa in discussione del potere di contrattazione dei lavoratori mediante il sindacato, un rinnovato protagonismo della classe dirigente di un Paese che si vorrebbe completamente spostato sul piano del privato a tutti i costi.
Per ottenere tutto questo, l’associazione padronale è persuasa che si stia facendo poco, molto poco. Le parole del Presidente della Repubblica stridono con l’impostazione che nei prossimi anni intende darsi l’aquila di Viale dell’Astronomia e che richiama all’ordine il governo soprattutto su una politica di stampo fiscale che ricada completamente sulle tasche comuni, del popolo e non di quella piccolissima percentuale che detiene immense ricchezze, profitti ed extraprofitti.
Del resto mica possiamo aspettarci che i padroni propongano una tassa patrimoniale fortemente progressiva che andrebbe a prelevare dalle loro montagne di soldi quel che veramente serve per evitare che a pagare siano, per davvero, soltanto e sempre i soliti noti… Rubare in casa dei ladri è sempre piuttosto difficile.
Confindustria, annuncia Bonomi, «resta convinta che la mera introduzione di un salario minimo legale, non accompagnata da un insieme di misure volte a valorizzare la rappresentanza, non risolverebbe né la grande questione del lavoro povero, né la piaga del dumping contrattuale, né darebbe maggior forza alla contrattazione collettiva». In sostanza, una legge sui salari è pruriginosa per i padroni, che vogliono dettare le regole al di fuori di un contesto prestabilito secondo regole che valgano per tutte e tutti.
La democrazia, per la quale del resto Confindustria mostra totale impegno nella sua difesa, è ridotta dal padronato a forma, a contenitore di quella reale impostazione economico-antisociale che oggi è molto bene osservabile nella parcellizzazione contrattuale, nella divisione intercategoriale, nel fare del povero e dello sfruttato un nemico di sé stesso, un vicendevole nemico.
Ecco che le parole del Capo dello Stato, se contestualizzate come ovvio che sia, somigliano molto per lor signori ad una vox clamantis in deserto; la voce di un mondo del lavoro che è, sempre secondo la Costituzione, il nerbo della nazione, la forza del progresso sociale e civile, a differenza di una impresa che avanti a tutto mette la sua esclusiva sopravvivenza e la difesa ad ogni costo dei propri privilegi di classe.
La preoccupazione per l’assetto continentale di una economia sempre più in crisi, contando il fattore bellico come dirimente nell’insieme delle questioni dei tempi presenti (e ovviamente futuri), si concentra proprio sulla stretta decisa dalla BCE sui tassi di interesse. La cura – sostiene Bonomi – che rischia di uccidere il malato. Ma necessaria, precisa subito dopo.
Il progetto di riforma fiscale avanzato dal governo è praticamente una tutela dell’evasione fiscale diffusa, un altro attacco alle risorse dello Stato e, quindi, in ultima istanza, una bomba antisociale scagliata contro le lavoratrici, i lavoratori, i pensionati, gli studenti, tutte e tutti coloro che vivono già da oggi in stato di precarietà e di incertezza pressoché totale riguardo il potere di acquisto dei salari e di ogni altra forma di tutela residua.
Il progetto calderoliano sull’autonomia differenziata, se associato poi alla conferma della soluzione presidenzialista caldeggiata da Giorgia Meloni, per cui la stessa Presidente del Consiglio – come osservato dalla CGIL non molto tempo fa – non ha un mandato popolare di alcun tipo, può innescare una spirale cortocircuitante, una controversia sistemica tra regioni povere e tra queste e quelle meno povere (perché parlare di ricchezza sociale oggi in Italia sembra davvero fare riferimento a qualcosa di largamente ipotetico).
Le risorse del PNRR, oltre ad essere state assegnate per la maggior parte a progetti imprenditoriali e, quindi, distratte da un più giusto obiettivo di carattere sociale, sono anche state distribuite nell’ottica di una inversione di proporzionalità del tutto negativa: di più al nord e di meno al sud. In tutto ciò, non c’è un briciolo di visione collettiva e per davvero nazionale da parte dei cosiddetti “patrioti” delle destre al governo, salvo spendersi in proclami altisonanti che, ormai molto lontani dalla campagna elettorale di un anno fa, sono verba vana.
Questo il quadro un po’ generale dei rapporti tra Confindustria e governo Meloni, tra parti antisociali e politica. Però è necessario spostare l’attenzione anche sul piano inclinato che interessa l’esecutivo e il mondo del lavoro e quindi le parti sociali (sindacato, lavoratori, precari, disoccupati, pensionati, studenti, ecc.) unitamente al sindacato. Da questa angolazione, oltre che da quella di una politica veramente di sinistra, progressista ed antiliberista, dovrebbe essere eclatantemente evidente il ruolo della maggioranza e del governo stesso.
In un anno esatto dalla sua formazione, le destre hanno lavorato alla formazione di un blocco fortemente antisociale, antisindacale, ostile alle differenze intese come arricchimento anche complessivo di tutti i diritti collettivi ed individuali. Hanno provato la saldatura tra ceto medio e grande impresa, tenendo strette le redini con un proletariato moderno impossibilitato a ragionare sulla crisi economica crescente, per via della drammatica situazione di esponenziale povertà che lo attanaglia sempre di più.
Hanno ristretto gli spazi di comunicazione dei drammi sociali, hanno compresso la libertà di espressione in questo senso e hanno cercato di fare apparire la ingerenza della crisi come una sorta di effetto domino che, pur essendoci, è stato notevolmente amplificato dalle scelte antipopolari fatte da Palazzo Chigi in prima persona.
Il tentativo di costruire un blocco antisociale ispirato ad una nuova cultura di una destra, che fa le prove tecniche di una egemonia mai vista prima, mai tentata prima di ora se non nell’esasperante ventennio berlusconiano, va a scontrarsi con tutte le difficoltà che la crisi impone all’Italia e a cui il governo meloniano è incapace di dare una benché minima soluzione.
Le parole di Sergio Mattarella, in confronto alla flebile opposizione del PD, che si limita a contrappuntare quanto affermato dal trittico governativo e non sceglie nettamente da che parte stare (con i lavoratori o con lavoratori e padroni al tempo stesso…), sono risuonate davvero come qualcosa di più di un richiamo al padronato affinché accetti di confrontarsi con il mondo del lavoro, con l’impianto costituzionale e con una attualizzazione della Repubblica democratica fondata proprio su quel mondo.
Le parole di Mattarella, in questo diffusissimo scempio antisociale, sono state una boccata di ossigeno. Magari non rivoluzionario, ma certamente essenziale per poter vivere ancora un po’…
MARCO SFERINI
16 settembre 2023
foto: screenshot tv