La diatriba delle tasse e la marcia spedita contro il sociale

Il paradigma è sempre lo stesso quando non si vuole sostenere da Palazzo Chigi delle riforme che vadano nel senso della maggiore equità nel mondo del lavoro: occorre maggiore...

Il paradigma è sempre lo stesso quando non si vuole sostenere da Palazzo Chigi delle riforme che vadano nel senso della maggiore equità nel mondo del lavoro: occorre maggiore flessibilità. Questo è il principio primo, la suprema lex per una insalubrità plurigenerazionale ormai che riguarda i più diversi comparti dell’industria, dei settori strategici dell’economia così, come, nemmeno a dirlo, del lavoro precario.

Il tatticismo fintamente sociale delle destre, di popolo, patriottiche e neosovraniste si infrange contro la barriera delle compatibilità del sistema che esigono moderni pacta sunt servanda, richiesti anche dell’Europa ma – è questa, sembra, la tesi di Mario Monti quando si parla dei rapporti tra Roma, Bruxelles e Francoforte – condivisi ampiamente da un governo che ha votato favorevolmente ai dettami continentali.

La coincidenza tra il dire e il fare non è una virtù largamente praticata, ma nel caso delle destre di governo è nella maggior parte dei casi tema di smentita tanto frequente da diventare una costante: nei comizi e nei messaggi televisivi, Meloni e Salvini (differentemente Tajani e Giorgetti) la difesa a spada tratta del programma della maggioranza non è argomento, tema e posizione negoziabile con le tecnocrazie europee. Nei fatti, il melonismo è l’arte della resilienza, della ruffianeria a buon mercato.

Il sindacato tenta la difesa degli ultimi diritti dei precari, affinché non siano convertiti in lavoratori stagionali, sostenendo le sentenze dei tribunali che smentiscono gli atti di governo (per cui «rientrano nelle attività stagionali le attività organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro» e non possono essere altrimenti demandate ad altri lavori).

Meloni e ministri invece avanzano come cingolati verso l’obiettivo di evitare che i contratti a termine si trasformino in contratti a tempo indeterminato e, quindi, oltre la retorica da comizio elettorale sul lavoro garantito e ben pagato, la maggioranza spalleggia gli imprenditori nella loro crociata per costi sempre minori, per sgravi fiscali maggiori e il riversamento di tutte queste preservazioni di privilegi sulle tasche dei più deboli.

L’esclusione del mondo precario dall’accesso ai contratti a tempo indeterminato è il termine di valutazione particolare di una più generale ispirazione della legge di bilancio che è in discussione in questi giorni e che fa fibrillarae le forze di governo. Perché qui si tratta di matematica, di cifre e, quindi, di fattacci contro cui ci si può sbattere la testa, si possono chiamare “rimodulazioni” gli aumenti fiscali sulla casa, sulle accise di benzina e diesel, ma sempre di aggravi nei confronti delle tasche degli italiani si tratta.

Prima gli italiani, sì, ma, come è evidente, prima quelli che hanno di più e dopo quelli che hanno di meno, molto meno… Tutto va nella direzione precisa della soddisfazione di politiche del lavoro e dell’economia che stabilizzino non il livello del monte orario e salariale, del tipo “lavorare meno e lavorare tutti a parità di salario“. No, nulla di tutto questo. Il mantra è: “lavorare di più da precari senza avere alcuna speranza di stabilizzazione“.

La legge di bilancio, quindi, che si affianca alle altre normative che riguardano, oltre a salari e pensioni, anche la capacità di risparmio degli italiani, è quindi la ciliegina sulla torta. La sincerità di Giancarlo Giorgetti è scoppiata come una bomba dentro la compagine di governo: un po’ ragionieristicamente, ma molto obiettivamente, il ministro ha detto coram populo, alle commissioni riunite di Camera e Senato che i soldi sono pochi, che se si arriverà all’1% di crescita del PIL sarà già un miracolo, e che quindi i sacrifici li devono fare tutti.

Apriti cielo. Perché dalle parti di Forza Italia a sentir parlare di tassazioni e fiscalità si scatenano pruriti orticari di non poco conto, mentre leghisti e fratellitalioti frenano le parole del ministro più importante del governo: la casa non si tocca. Ma, a riprendere le parole del meno amato dai salviniani, le modifiche delle imposte avrebbero riguardato i fruitori del Superbonus, con l’intento di far emergere anche tutto quel sommerso edilizio che sfugge alle casse dello Stato.

Per una volta che le parole del governo seguono un certo buonsenso, il governo stesso si autocensura e affida la replica ufficiale alla Presidente del Consiglio: nessuna nuova tassa, nessun sacrificio. Ma la coperta resta corta, la crisi multistrato e multipolare incalza, la guerra rimane un elemento di grande destabilizzazione per i conti e quindi da qualche parte i soldi bisogna pure recuperarli. Il taglio delle spese ministeriali? Qualcuno ci ha già pensato: sembra che vogliano escludere la sanità. C’è rimasto ben poco da tagliare…

L’aggiornamento dei dati catastali fa venire il mal di pancia a mezzo esecutivo meloniano ed è, quindi, subito chiaro che, se Giorgetti è persino contenuto e smentito dai suoi sottosegretari, il livello della contesa è alto, molto alto. Qualcuno rimprovera al ministro di essere stato poco tattico, molto diretto. Bisogna usare prudenza: dire alla gente che si è contro le nuove tasse e poi comunque inserirle nella legge di bilancio. Così si è sempre fatto, a discapito di tutte le promesse elettorali.

Chi deve, dunque, fare nuovi sacrifici? Se l’indirizzo di politica economica è quello della stabilizzazione della precarietà entro i termini di contratti di lavoro che permettono agevolazioni agli imprenditori e strutturazioni dell’incertezza salariale per chi ne è alle dipendenze, il quadro risulta abbastanza chiaro. La cinghia la devono tirare quelli che sono milioni e milioni e non poche centinaia di migliaia di ricchissimi.

Ciò che il governo va cercando sono nuovi tagli alla spesa sociale e nuove entrate. Ma nelle nuove entrate non c’è la minima ombra di tasse ai superpaperoni di casa nostra. Nessuna patrimoniale: un ferrovecchio della forte progressività fiscale inscritta ne “Il manifesto del Partito comunista” e che Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia provano ad attribuire alla sinistra moderata del PD come norma liberticida, che impedirebbe un vero sviluppo nazionale. Mentre i contratti stagionali finti sarebbero un lustro patriottico per il Paese.

Lo stato dell’economia di mercato e della sua crisi è così vasto e irrefrenabili da non rendere sufficienti nemmeno più le privatizzazioni per un contenimento degli eccessi di perdita, delle grossolane mancate perdite di PIL, dell’impossibilità di una crescita su scala nazionale che permetta di stare nei parametri del “patto di stabilità” firmato da Meloni e compagnia e – secondo Mario Monti, come si scriveva poco sopra – anche condiviso. L’ultima possibilità di far quadrare, entro la cornice di un debito pubblico esponenzialmente abnorme, è tagliare ancora la spesa sociale.

Non si tratta di cifre esigue: si parla di dodici miliardi di decurtazioni alle pubbliche amministrazioni per i prossimi sette anni. Un disastro, un altro, che coinvolge l’oggi, il domani e il dopo domani, rendendoci tutti più poveri e, in particolare, coloro che poveri lo sono da sempre o lo sono invece recentemente diventati. È abbastanza chiaro ed evidente, lampante ed oggettivo il fatto che, se si impedisce a chi lavora di avere una certezza immediata e futura del proprio reddito, la programmazione della vita è impossibile.

Ma non solamente quella dei lavoratori precari moderni; tutta la vita nazionale rimane sospesa tra il patto di stabilità, i conti pubblici che non si giovano del tanto famigerato ed auspicato “avanzo primario” e una crisi globale che si riverbera sull’Europa come una clava sul capo di una costruzione monetaria ed economica priva di una ossatura istituzionale e politica statale: per cui l’unità di intenti non corrisponde mai all’applicazione degli stessi.

Non solo la sanità verrà nuovamente colpita dai tagli, rendendo il diritto alla salute e alla cura sempre più effimero e subordinato alla logica parzialmente privata dell’intra moenia, quando non direttamente delle grandi strutture completamente private e nemmeno più definibili come “concorrenziali” col pubblico, visto lo stato miserevole del Servizio Sanitario Nazionale.

Ad essere oggetto della politica di ridimensionamento dei fondi da parte del governo saranno anche le scuole. Primi fra tutti gli atenei. Il Fondo per il finanziamento ordinario delle università vedrà decurtati quest’anno centosettanta milioni di euro e a farne le spese saranno quasi tutte le università pubbliche italiane, mentre la ricerca sarà ulteriormente destinata a soddisfare le esigenze dei privati. Si andrà verso un definanziamento degli atenei più piccoli e periferici per privilegiare quelli più grandi.

Questo vorrà dire meno corpo docente, meno specializzazioni, meno ricerca, meno di tutto. Ma Giorgia Meloni rassicura: il suo governo è del fare. Del fare meno e male. Del fare nella direzione della protezione di chi ha già troppo, laciando indietro chi viene recepito come una zavorra rispetto ai tempi delle richieste delle leggi di bilancio e dei patti che dovrebbero stabilizzare l’economia di un intero continente.

L’ISTAT conferma: quattro milioni e mezzo di italiani non hanno la possibilità di accedere alle cure sanitarie e rinunciano quindi alle stesse. I precari vengono istituzionalizzati come tali. La scuola ha sempre meno risorse e punta, però, ad inserire tra i testi di riferimento i libri scritti da direttori di testate di destra o, addirittura, ministri, deputati, senatori che rivedono corsi e ricorsi storici. Salari e pensioni sono al ribasso. Il PIL non cresce.

E chi paga dunque la crisi causata dai privilegiati, dai grandi ricchi, dai superdanarosi? Chi a mala pena conserva qualche diritto. Chi non riesce a mettere da parte nemmeno un centesimo di euro. Chi ha un mutuo sulla casa che lo esaspera e dissangua. Chi nemmeno ha i soldi per pagare ai figli la mensa scolastica. Chi gira come un matto per le vie delle città a consegnare panini e pizze. Chi doveva andare in pensione a sessant’anni e invece finirà per ritarsi dal lavoro a sessantasette. Chi non avrà mai una pensione.

Pagheranno, purtroppo, tutti coloro che, dal basso, hanno creduto alle parole di Giorgia Meloni e dei suoi accoliti; così come a quelle di Salvini e di Berlusconi prima. Certo, il centrosinistra ha colpe simili: ha promesso nel corso delle sue esperienze di governo di migliorare la condizione di vita della gente fragile, delle lavoratrici e dei lavoratori. E non l’ha fatto, trascinato nel gorgo delle compatibilità di governo e di sistema. Incapace, da un lato, di imporre una serie di riforme sociali, dall’altro di averne la convinzione.

La priorità di oggi dunque quale sarebbe? Non ci sono dubbi: mandare a casa questa compagine di governo che distrugge ciò che resta delle difese sociali e della tenuta democratica della Repubblica. Ma l’alternanza deve finire. Serve una alternativa. Si può e si deve darle una speranza, una concretezza. Le chiacchiere stanno davvero a zero, ed anche sotto questa temperatura gelida. Le speranze di poter capovolgere questa situazione di crisi, vi stanno molto rapidamente arrivando.

MARCO SFERINI

10 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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