La fine è nota anche se una sorpresa c’è davvero. Quando l’ordalia del Senato si è consumata, in tarda serata, Mattarella chiede a Draghi di rinviare le dimissioni a dopo il voto di oggi a Montecitorio. Secondo alcune voci, anzi, la richiesta sarebbe stata espressa di persona, quando il premier era già al Quirinale per la cerimonia degli addii. Un po’ è un gesto di cortesia verso la Camera già convocata. In parte Mattarella preferirebbe che Draghi restasse in carica per l’ordinaria amministrazione con la fiducia di entrambe le camere, per disporre di qualche potere in più.
Forse incide anche il bisogno di perdere qualche giorno: bisogna sciogliere le camere 70 giorni prima del 2 ottobre e mancano ancora alcuni giorni. Votare prima, il 25 settembre, non è possibile per la festività ebraica di Rosh Hashanah. C’è chi sospetta che Mattarella speri in risultati ribaltati alla Camera per riaprire la partita. Poi da palazzo Chigi fanno sapere che il premier andrà a Montecitorio solo per comunicare le dimissioni e salire al Colle senza aspettare un voto: «Game over».
L’intera convulsa giornata sembra in realtà uno di quei film pieni di colpi di scena, con l’esito in forse fino all’ultimo. Invece quando alle 9.30 il premier dimissionario prende la parola nell’aula di palazzo Madama i giochi sono già fatti. Nella notte Salvini e Berlusconi hanno scelto la spallata, convinti dai notevoli vantaggi elettorali che la crisi subito comporta, col campo largo nemico desertificato e le sfide nei collegi maggioritari ipotecate, ma anche dalla paura di ritrovarsi in primavera Draghi leader dello schieramento avversario. È una paura infondata ma pesa sulla decisione del Cav di appoggiare la linea dura dell’alleato.
Draghi lo sa. Immagina già come si concluderà la votazione e le cose vanno proprio così. La fiducia passa ma con appena 95 voti contro 33 no. M5S, Lega e Fi non partecipano al voto. Sipario. Ma a sorpresa Draghi rinvia la salita al Colle. Il presidente preferisce prendere tempo. Considera che, per la seconda volta, il governo non è stato sfiduciato.
Draghi conosce il quadro reale dall’inizio, quindi non si preoccupa troppo della diplomazia. Si toglie qualche sassolino dalla scarpa, sia pur senza calcare troppo la mano.
Di sberle comunque ne dispensa parecchie e prende di mira più la Lega che i 5S pietra dello scandalo. Si scaglia contro l’appoggio leghista alle proteste di taxisti e balneari: «Ora c’è bisogno di un sostegno convinto all’esecutivo non a proteste non autorizzate e talvolta violente». Sulla campagna di Conte contro le armi all’Ucraina è spietato: «Tentativo di fiaccare la nostra opposizione al disegno di Putin».
Il premier propone un nuovo patto stretto dalle forze politiche «con coraggio, altruismo, generosità», perché questo chiedono gli italiani che hanno dato vita, dopo le sue dimissioni, «a una mobilitazione senza precedenti e difficile da ignorare». È una sorta di appello diretto al popolo che suona come un aggiramento a modo suo populista del parlamento anche se il diretto interessato, nella replica, smentirà con toni molto accesi, respingendo con sdegno l’accusa di aver chiesto «i pieni poteri».
È certamente sincero, senza rendersi conto che la logica che lo guida ha poco a che spartire con quella propria di un sistema parlamentare. Quel che chiede ai partiti della maggioranza è di sostenere le scelte del governo senza contestare e senza intralciare troppo. Nei cda e nei board delle banche è la norma e forse il problema tra Draghi e la sua maggioranza è stato questo sin dall’inizio.
I 5S gelidi, accolgono la rampogna senza mai applaudire. Salvini, che aveva pronosticato «una buona giornata», è scuro ed evita anche lui battiti di mani. La destra si riunisce in conclave a villa Grande. Il Pd e LeU moltiplicano pressioni e appelli sui 5S: se votassero la fiducia, la responsabilità dell’eventuale crisi ricadrebbe tutta sulla destra. E il campo largo sarebbe salvo, anche se questo particolare non viene citato apertamente. Conte esita. I senatori lanciatissimi no.
La tensione monta, la strada che sembrava parzialmente sgombra risulta invece piena di ostacoli. Sia i 5S e che la destra di governo decidono di disertare la discussione generale: il percorso è tutto al buio. Casini prepara con il Pd una risoluzione di appoggio al governo: secca, «il Senato approva». Campeggia ancora un certo ottimismo. Ma quando prende la parola il capogruppo del Carroccio Romeo, unico leghista iscritto a parlare, tutto cambia.
La Lega spara a zero: non chiede solo l’espulsione del M5S dal governo ma anche un ricambio dei ministri e del programma, un Draghi bis in piena tinta centrodestra. Tra i nomi nel mirino quelli della ministra degli Interni Lamorgese e del ministro della Salute Speranza. Draghi, furibondo, esclude il bis. Al massimo potrebbe lasciare alla Lega l’Agricoltura che resterebbe vacante dopo l’uscita del 5S Patuanelli. Alla Lega non basta per sacrificare una probabilissima vittoria nelle urne.
Franceschini insiste con i 5S perché votino la fiducia. Letta, Conte e Speranza improvvisano un vertice volante. Ma i margini sono quasi inesistenti e quando nella breve replica il premier bastona di brutta il M5S si chiudono anche quelli. Sembra l’ultimo atto. Invece il sipario calerà oggi alla Camera. Lasciando probabilmente sul terreno nuovi addii come quello fragoroso di ieri: Maria Stella Gelmini ha lasciato «dopo 25 anni» Forza Italia.
ANDREA COLOMBO
Foto di Monstera