Le notizie di Natale e del post-Natale sono sempre molto appiattite su buonissime intenzioni espresse con grandi cene per i poveri, con catene alimentari e anche con miriadi di fotografie che ci ricordano ciò che è avvenuto nell’anno che sta per finire. Ma, anche in mezzo a tante ottime notizie, così rare nel resto delle mensilità appena trascorse, il tempo dei bilanci va fatto anche sul fronte del disastro anti-umanitario che si consuma quotidianamente sulle coste europee e, quindi, su gran parte di quelle italiane.
Mentre scrivo queste righe, la notizia di 255 migranti, salvati da un mare costretto a diventare il loro assassino dai mercanti di carne umana, imperversa e giustamente si leva uno sdegno che si lega alle parole del papa. Francesco appare sempre più come l’unica voce discordante da un coro di cattivi maestri di una politica fatta di necessario pragmatico cinismo in salsa elettorale e, nel peggiore dei casi, di vero e proprio odio.
Un odio che passa di bocca in bocca, da programma televisivo ad altro programma televisivo, da mente svuotata di contenuti e riempita di luoghi comuni, pregiudizi e, quindi, paure non necessarie.
A volte capita di sentire dire: “La sinistra deve affrontare la questione dei migranti e non può essere sempre buonista.”. Vorrei davvero capire cosa vuol dire essere “buonisti”. Io non mi sono mai sentito “buonista”: questo è un termine abilmente inventato da chi vuole stigmatizzare una linea di condotta morale e politica fondata sulla solidarietà di classe, sul principio – più volte scritto in questo nostro sito – secondo cui un povero non può essere nemico di un altro povero.
Sta in una scientificità dell’economia che è, quindi, sociologia moderna, analisi compiuta e definita, quindi reale, tratta da una osservazione del contesto in cui vivono la crisi gli italiani e i migranti. Se siamo “buonisti”, allora dovendo – secondo alcuni – abbandonare la bontà dovremmo diventare “cattivisti”?
Rifiuto una dialettica così perversa, un giochetto di parole che vuole far prevalere il realismo soltanto dove esiste il sospetto, il pregiudizio e ogni elemento di separazione dell’altro da noi che ci consente soltanto di scansare il problema del fenomeno migratorio. Perché di un problema indubbiamente si tratta, ma non si risolve col razzismo, con una concezione elitaria del nostro popolo affidata ad un diritto di nascita che diventa diritto di prelazione su ogni soddisfazione dei bisogni.
Ma il tipo di accoglienza che questo Stato riserva ai migranti è frutto di compromessi con i privati, devia da un percorso pubblico, da una autentica adesione ai princìpi di democrazia, libertà ed eguaglianza sociale e civile che sono fondamento costituzionale per tutte e tutti.
Per questo, non aderendo a questi fondamenti, lasciando l’accoglienza nelle mani di chi vuole fare profitto, se ne trasforma il senso, la si perverte e quindi se ne genera l’esatto opposto: quell’integrazione che dovrebbe essere realizzata diventa invece terreno fertile per la strumentalizzazione da parte delle destre per erigere il totem della paura permanente, contro il diverso che oltre tutto viene da terre misere e quindi con sé porta la miseria, perché – secondo i canoni del pregiudizio che ne deriva – in quanto misero cerca di elevarsi e quindi di sottrarre a noi la ricchezza che abbiamo.
Ben poca cosa la nostra ricchezza e, quindi, in tempo di crisi economica dilagante, la guerra tra i miseri ed uguali solo in questo è facilissima ed è all’ordine del giorno.
Uno Stato civico prima ancora d’essere civile avrebbe nella sua Costituzione lo Ius soli di cui tanto si parla e lo avrebbe nella sua forma più lata, estesa, ampia, comprendente tutti gli esseri umani che vivono nel territorio della Repubblica. Invece di insegnare ai migranti la lingua del Padre Dante, di renderli capaci di comunicare – che è la prima grande rivoluzione dell’accoglienza – e pertanto di essere in grado di dimostrare che non sono dei selvaggi ma dei “civilissimi” esseri viventi e umani proprio come lo siamo noi (che iddio ci perdoni per esserlo…), si ammassano queste persone in case lager, le si lasciano girovagare per le città italiane senza una meta, senza uno scopo.
La noia, l’abbandono son la tua malattia… cantava una vecchia nenia sanremese… e la strofa terminava con “Paese mio, ti lascio e vado via”. Non si può andare via due volte: queste persone sono già fuggite una volta dalle guerre, dalla miseria, dalla fame, da situazioni politiche complicate sfuggendo alla morte; oltrepassano il mare, arrivano in Italia e trovano noia, abbandono… dovrebbero dunque fuggire ancora?
Una vita fatta di fughe non produce nulla di buono. Ma il primo a fuggire qui è proprio lo Stato, è la comunità popolare che sta in un territorio e contribuisce a fare dello Stato ciò che è.
Dunque, quando puntiamo il dito contro i migranti, colpevoli d’ogni male, quando tacciamo di “buonismo” chi ne difende i diritti (e non i reati), dovremmo voltare la mano e rivolgerla contro noi: perché i primi responsabili del degrado immorale e incivile cui ogni giorno assistiamo siamo proprio noi…
MARCO SFERINI
28 dicembre 2017
foto tratta da Pixabay