La democrazia al confino: il carattere eversivo delle destre

Dalla pochezza politica alla voluta ignoranza storica il passo è qualcosa di più di breve. Siamo nell’immediatezza: perché Giorgia Meloni il coup de theatre lo mette in scena con...

Dalla pochezza politica alla voluta ignoranza storica il passo è qualcosa di più di breve. Siamo nell’immediatezza: perché Giorgia Meloni il coup de theatre lo mette in scena con una incontestabile abilità. Ma, tant’è, il giochetto è facile da intuire e da svelare. Nel giorno in cui le Camere votano sul ReArm Europe, su differenti mozioni antitetiche tra loro, e nel momento in cui la maggioranza di governo registra su questo tema una non irrilevante dialettica (per così dire…) interna, la Presidente del Consiglio si inventa uno spettacolino revisionistico-storico.

Cita a spizzichi e bocconi brevissime frasi di quello scritto che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi redassero (insieme al comandante partigiano Eugenio Colorni) negli anni di confino sull’isola di Ventotene, mandati lì dal regime fascista insieme ad altre centinaia di oppositori per evitare che le loro idee ed azioni si propagassero nell’Italia della dittatura. Giorgia Meloni sarà anche grossolana per come si esprime, per l’antipatica irrisione tanto degli eventi storici quanto delle fondamenta democratiche, antifasciste e repubblicane del Paese, ma è coerente.

Non deve stupire che lei si situi sulla sponda opposta rispetto a quella dei confinati. La sua Italia, la sua Costituzione, la sua Repubblica e, quindi, anche la sua Europa sarebbero state molto differenti da oggi se nel 1945 avessero vinto Hitler e Mussolini. Lo si voglia o no, Meloni è erede di un movimento politico che affonda le sue radici nel fascismo peggiore, quello di Salò, quello da cui provenivano praticamente tutti i dirigenti del vecchio MSI, l’unico partito politico al di fuori del cosiddetto “arco costituzionale“, ossia di quell’insieme fi forze politiche antifasciste che avevano dato vita alla Carta del 1948 e, prima, al nuovo Stato italiano.

Ma, se non stupisce il fatto che una politica che non si è mai dichiarata antifascista oggi strumentalizzi la storia a suo piacimento per dimostrare che leì, sì, è una vera democratica (altro che Spinelli, Rossi e Colorni!), deve comunque indignare un altro fatto: che queste parole non provengano da un semplice cittadino, bensì da colei che presiede, coordina e ispira l’azione del governo della Repubblica Italiana. Questo non è ammissibile. E non per una punta di presunzione etico-politica che, comunque, va rivendicata perché l’antifascismo è la quintessenza della democrazia in questo disgraziato Paese.

Semmai perché così facendo dà una prova di manifesta intolleranza nei confronti del carattere costituzionale dello Stato, dell’uniformarsi di tutti gli apparati istituzionali al principio democratico che è figlio di una Resistenza a quel regime che, al netto delle prese di distanza ufficiali, fatte per compiacere una certa parte di elettorato, opinione pubblica e consessi internazionali, viene ripreso come modello di indefessa disciplina morale, sociale, civile e culturale dalla destra cosiddetta “postfascista“.

Noi oggi scriviamo, parliamo e discutiamo del “Manifesto di Ventotene” e non del riarmo europeo a cui von der Leyen e Meloni ci consegnano in un prossimo, imminente futuro di guerra permanente. Intendiamoci: che si parli della visione federale del Vecchio continente e che, magari, sull’onda della forzosa e artificiosa polemica melonina qualcuno venga a conoscenza di uno degli scritti più importanti redatti durante la Seconda guerra mondiale come premessa per lo scongiuramento di nuovi eventuali conflitti, è un bene. Non tutto il male viene per nuocere. Ma il fascismo era e rimane un male.

Giorgia Meloni sta nel solco almirantiano del “non rinnegare, non restaurare“. In questo cono d’ombra si muove gran parte di quella che è, obiettivamente, molto difficile poter appellare come una nuova “classe dirigente” italiana. Se ha davvero bisogno di strumentalizzare le parole di Spinelli e Rossi, vuol dire non soltanto che le sue argomentazioni sono fragilissime in merito alla questione del riarmo europeo, ma che una miriade di contraddizioni la circondano e le rendono asfittico il proseguimento del confronto tanto interno quanto esterno alla sua maggioranza.

La rete è impietosa, spietata e non perdona niente e nessuno: così, nel mentre lei in Parlamento si accinge ad affermare che non ha mai detto di essere certa della vittoria dell’Ucraina nella guerra in corso, iniziano a girare i video in cui, non molto tempo fa, asseriva l’esatto contrario. Nessuno può prevedere il futuro, ovvio. Ma quella non era una previsione: si trattava di un punto di politica internazionale, di una ferma convinzione del governo italiano: Kiev andava sostenuta senza se e senza ma, entro il perimetro nordatlantico, genuflettendosi ai voleri tanto degli Stati Uniti quanto della NATO.

Se c’è un terreno su cui la destra è sempre stata ecellentemente brava è quello del trasformismo a buonissimo mercato. Accanto a questo tratto distintivo, si sommano poi la spudorata revisione della Storia, riletta e rinarrata dal punto di vista di coloro che avevano trascinato l’Italia nella dittatura e nella tragedia della guerra mondiale e, non di meno, la concezione del potere di governo non come amministrazione ma come imposizione della loro politica oltre ogni diritto universale, oltre ogni limite costituzionale. La maggior parte degli atti dell’esecutivo meloniano non protegge, non tutela, ma discrimina, separa, privilegia e penalizza a seconda delle categorie sociali e civili in cui ci si trova.

Nel corso degli ultimi secoli, almeno a partire dalla fine del Settecento, le rivoluzioni sono state momenti importanti di rottura netta e, a volte, definitiva, col passato. Si sono tagliate le teste dei re e delle regine, si sono uccisi gli zar di tutte le Russie per marcare con risolutezza che il percorso intrapreso era irreversibile: da lì in poi si poteva soltanto guardare ad una società diversa, nuova, che non rinnegava la sua Storia ma che la acquisiva come monito per non ripetere gli errori di millenni. E questi errori, se così si possono chiamare…, erano tutte quelle diseguaglianze sociali su cui si formavano poi le altre discriminazioni.

Gramsci mette in evidenza, a proposito della “legalità” esibita dal fascismo di prima istanza come elemento di connubio con la rivendicazione dell’ordine e della prosperità nazionale, come questa nozione possa essere trasformata nel contrario di sé stessa proprio grazie a sé medesima. Il capitalismo italiano si serve del movimento mussoliniano per riadattarsi ad una crisi verticale dei suoi presupposti sistemici. A partire dalla Rivoluzione francese entra in gioco, prima accanto e poi sostituendo le vecchie istituzioni aristocratiche, il governo della borghesia.

Per comprendere la veloce dinamica dei fatti politici di oggi, sia su scala nazionale, sia europea, sia su quella globale, ci è utile una disamina di più lungo corso per avere chiari quali sono i riflussi e le spinte che si esauriscono solo dopo molto, molto tempo. Gramsci lo scrive senza troppi giri di parole: la reazione non è, nel primo Novecento, solo un fenomeno del nascente totalitarismo italiano. Proprio l’incapacità del capitalismo di riuscire a gestire la globalizzazione nascente, mette la classe borghese ed imprenditoriale davanti ad uno smarrimento di cui non ci si capacita.

«Il fascismo è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato, cioè di un incrudimento della reazione capitalistica contro le esigenze più vitali della classe proletaria». Se queste parole del grande intellettuale comunista le riportiamo nel contesto attuale, ci possiamo rendere conto che i primi cenni di autoritarismo moderno sono la fase preparatoria di un neonazionalismo in cui il premierato viene spacciato per la riforma delle riforme, capace di dare all’Italia del XXI secolo quella stabilità che il liberismo schizofrenico di oggi è impossibilitato a garantire.

Che cosa sta facendo esattamente Giorgia Meloni oggi? Sta cercando un punto di equilibrio su cui far stare il suo governo tra spinte trumpiane da un lato e spinte vonderlayane dall’altro. Tra vecchia simpatia per Putin e nuovi ammiccamenti al nordatlantismo imperialista. All’Europa richiamata, per conto dei grandi gruppi dirigenti continentali, da Mario Draghi, lei oppone quella delle “nazioni” o, per meglio dire, dei nazionalismi. Ma, pur in una qualche forma di riscoperta delle radici ideologiche del suo fascismo storico, del suo postfascismo almirantiano e dell’attuale fase fratellitaliota, alla fine prevale il compatibilismo del e per il potere.

Il pericolo maggiore che questa destra rappresenta è proprio dato dalla pre-potenza, da quel volere per il volere, senza badare minimamente alle regole, anche quando vengono modificate in senso autoritario: a questo proposito si guardi la riforma della giustizia. La subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo è qualcosa che i Padri e le Madri Costituenti non avrebbero mai e poi mai immaginato possibile prima e dopo la stesura della nuova Carta fondamentale dello Stato italiano. Così come nulla ha a che vedere col federalismo il tentativo di autonomizzazione differenziata delle regioni voluta dalla Lega.

Scrive ancora Gramsci: «Il fascismo è l’illegalità della violenza capitalistica». Ed oggi, qui ed ora, le destre di governo sono l’incostituzionalità, l’antistoricità, l’impolitica e il più retrivo conservatorismo populista che si scontra con il carattere resistente, antifascista e democratico della Repubblica. Ascoltare nelle aule parlamentari un discorso come quello fatto da Giorgia Meloni sul “Manifesto di Ventotene“, è di per sé un elemento chiarificatore della natura intrinseca di forze politiche che non hanno mai inteso corroborare la libertà unitamente alla giustizia sociale.

Per questi nuovi nazionalisti dal piglio sprezzantemente volgare perché distintamente autoritario, vale esclusivamente la rivincita su un passato in cui sono stati costretti a vivere relegati nell’angolo dell’ignominia che si erano procurati con la rivendicazione della parte peggiore della politica italiana del Novecento. La democrazia, nella sua straordinaria complessità, condizionata dai processi economici e finanziari, è pervertibile nel momento in cui si creino le condizioni minime affinché le conquiste delle lavoratrici e dei lavoratori nel secolo scorso siano cancellate e sostituite dal primato del mercato rispetto all’interesse comune.

La vendetta delle destre nei confronti della democrazia, dei tratti di socialità e del fondamento egualitario della Costituzione e della Repubblica avrebbe dovuto già da tre (e più) anni allarmare quell’ampio fronte progressista che non riesce a trovare un comune denominatore per rappresentare la maggioranza della popolazione che, pure nelle non poche differenze esistenti tanto sul piano ideale quanto su quello prettamente politico e sociale, si riconosce tanto nella Carta del 1948 quanto nelle proprietà virtuose della democrazia rappresentativa, formale quanto si vuole, ma necessaria ad successivo sviluppo di quella sostanziale.

Stupirsi delle parole di Giorgia Meloni è inutile. Indignarsene è ben altra cosa, perché pone la premessa per una ricomposizione attorno ai valori dei confinati che non saranno oggi quelli di molti partiti politici di opposizione, non fosse altro per differenza temporale piuttosto ampia, ma che possono essere, seppure suggeriti dall’intervento indecente della Presidente del Consiglio, un momento di riflessione condivisa: attorno a quella visione di Europa, sociale, civile, democratica e quindi nettamente antiautoritaria, possiamo dare vita ad una alleanza di tutte le forze di progresso.

Per poter realizzare questo obiettivo è necessario, una volta per tutte, che ognuno scelga da che parte stare: a cominciare dalla guerra, dall’invio delle armi e, siccome era il tema in discussione alle Camere poco prima della distrazione di massa diffusa dalla Presidente del Consiglio, del riarmo come metodo di difesa. Insieme all’autoritarismo delle destre, oggi il nostro peggiore incubo sono queste parole: «La pace nella nostra Unione non può più essere data per scontata. Siamo di fronte una crisi della sicurezza europea. Ma sappiamo che è nelle crisi che l’Europa è sempre stata costruita. Quindi, questo è il momento della pace attraverso la forza».

MARCO SFERINI

20 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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