La strategia novella del governo per arginare gli sbarchi dei migranti sulle nostre coste sarebbe quella di impedire alle navi delle organizzazioni non governative di approdare nei porti della Repubblica italiana. Geniale! Stremati da viaggi nel Sahara, fughe dalle guerre, violenze sessuali, fame, torture, i migranti che hanno trovato rifugio su imbarcazioni di associazioni umanitarie dovrebbero aggirare la nostre isole minori e maggiori, primo approdo utile sul continente europeo e, magari, cercare scampo in Grecia o in Francia, oppure nella lontana Spagna.
Indubbiamente la situazione è al collasso: il raffronto tra le cifre degli sbarchi avvenuti nel 2016 (circa 181.000) e quelli avvenuti nei primi sei mesi del 2017 (74.000 circa) secondo le fonti istituzionali, ci parla di una emergenza storica che continua, che non si arresta, che si riversa non nelle lontane Americhe o nell’Asia, ma nel solo continente europeo.
Ed è ovvio che stare in una comunità vuol dire condividere delizie e croci, gioie e disgrazie. Almeno così dovrebbe essere. Però, senza guardare troppo indietro e senza fare della critica ormai scontata visti i dati di fatto, va osservato che il sistema di accoglienza dei migranti in Italia ha funzionato sempre molto poco ed è stato oggetto di furenti polemiche per i ritardi nell’identificazione delle persone (perché tutte e tutti dovremmo sempre tenere bene a mente che stiamo parlando non di numeri ma di persone come noi), per lo stipamento nei Centri di identificazione ed espulsione, per un clima montante di razzismo e xenofobia che spesso emerge nelle comunità che devono ospitare i reduci di traversate di sabbia e di mare.
E tutte queste dinamiche hanno pesato fortemente sul contesto politico che se ne è nutrito da un lato e che ne è stato colpito dall’altro con sfiducie di massa verso i partiti di governo.
Tuttavia, nella vulgata comune, ancora fino a poco tempo fa la sfiducia e la rabbia nei confronti dell’esecutivo erano alimentate da questi fenomeni migratori epocali, mentre oggi, secondo sondaggi apparsi recentemente in televisione, sembrerebbe che, pur legandosi al tema dell’immigrazione per differenti approcci, sia il lavoro che manca il motivo principale per cui gli italiani avversano le politiche del PD e dei suoi alleati.
Recuperare il consenso politico in questi frangenti appare veramente una impresa titanica, soprattutto dopo i dati di astensionismo che hanno evidenziato tante spallucce fatte dai cittadini al momento di doversi recare alle urne.
La distanza tra problemi sociali e istituzioni si allarga, cresce il malcontento e crescono i consensi per i cosiddetti “sovranisti”, per coloro che rivendicano il primato dell’italianità in ogni settore della vita singola e collettiva: dai diritti sociali a quelli civili, passando per l’avversione allo Ius soli.
E, allora, la durezza delle parole dei ministri in questi giorni sul terreno dell’accoglienza potrà far recuperare qualche simpatia politica al governo ma non muterà affatto il disagio crescente derivato dal privilegiare le politiche di tutela dei privilegi e dei profitti di pochi contro la distruzione dei grandi diritti di un tempo che formavano la vecchia struttura dello stato-sociale.
Non esiste, dunque, una politica che si sviluppi su una ispirazione all’egualitarismo che farebbe tanto bene sia all’ambito civile quanto a quello prettamente rivolto al riconoscimento di antichi diritti dei lavoratori e delle lavoratrici sulla base delle necessità e non dell’etnia cui si appartiene.
Non è difficile smontare la pretestuosità dei “sovranisti” in termini di primato nell’accesso ai servizi e ai beni come le case, la sanità, le pensioni, il lavoro, la scuola, e così via dicendo. Non è difficile se si potesse fare esempi che rispecchiassero la realtà dei fatti: se vi fosse una sovrabbondanza di diritti, quindi vi fossero più case che richieste di case, più lavoro che domande di lavoro, allora basterebbe l’evidenza. La distribuzione di un diritto è già di per se una bestemmia perché un diritto o è per tutti o si chiama, altrimenti, “privilegio”.
Comunque sia, una casa la si da a chi ne ha bisogno e non a chi non ne ha bisogno solamente magari perché autoctono.
Cioè, come osservava Don Lorenzo Milani, “fare parti uguali tra diseguali” è una delle ingiustizie più grandi.
Perché chi non ha bisogno di una casa vuol dire che può già vivere senza l’affanno di cercare un tetto dove poter vivere. Chi ne ha bisogno davvero quell’ansia la vive costantemente.
Ed ecco che il “sovranismo” è già decostruito nella sua presunta potenza rivendicatrice di diritti esclusivi per le italiche genti.
Ma oggi gli esercizi dialettici valgono poco: la miseria sociale avanza, il malcontento domina la rabbia comune, le prospettive di futuro per le giovani generazioni sono sempre meno percettibili e visibili. E la guerra tra i poveri è la naturale conclusione in cui il capitalismo fa precipitare l’insoddisfazione esponenziale che si alimenta di odio e disprezzo.
Manca, dunque, un riferimento cultuale – prima ancora che politico – cui basarsi socialmente, non solo individualmente, per mostrare e dimostrare che i problemi sono ben più articolati di quanto semplificazionismi populisti e razzisti vorrebbero farvi credere.
Questo riferimento culturale manca ma esiste: è l’egualitarismo da cui discende la solidarietà piuttosto che il concetto negativo di “tolleranza”. Manca una cultura che però già c’è. E’ praticamente come il vento: c’è… ma non si vede.
MARCO SFERINI
30 giugno 2017
foto tratta da Pixabay