Cosa è rimasto delle culture che per tre millenni si sono succedute nella regione attraversata dai fiumi Tigri e Eufrate e che sono generalmente riunite sotto l’etichetta di «civiltà mesopotamica»? È questo l’interrogativo cui cerca di offrire una risposta l’ampio saggio titolato Il retaggio della Mesopotamia della studiosa britannica Stephanie Dalley (Adelphi, con un saggio di David Pingree, traduzione di Adriana Bottini, pp. 345, euro 32.00) apparso per la prima volta nel 1998 per la Oxford University Press, che mostra fin dal titolo quale sia il suo scopo: tracciare gli elementi della «eredità» mesopotamica nelle culture coeve e, soprattutto, in quelle posteriori. È infatti all’influenza della tradizione mesopotamica sulla tradizione biblica, classica e islamica che Stephany Dalley dedica la maggior parte del volume.
Fin dai periodi preistorici il Vicino Oriente è stato lo scenario di importanti cambiamenti e avanzamenti tecnologici, ma è nella Mesopotamia meridionale del III millennio che si concentrano quei mutamenti di fondamentale importanza che l’hanno fatta individuare come «culla della civiltà». Secondo le fonti a disposizione, è infatti in quest’area che si sarebbero verificati per la prima volta quella serie di processi e innovazioni strettamente interconnessi, come l’origine della città e dello stato o l’invenzione della scrittura, che marcano l’inizio della storia. Nell’arco di tre millenni, le culture che si sono avvicendate nella regione tra il Tigri e l’Eufrate hanno dato vita a una civiltà dai caratteri unitari, con una coscienza di identità regionale, un pantheon unico, un sistema di governo simile. Tuttavia, il principale elemento identitario sta nell’elemento linguistico, il sumerico prima e l’accadico con le sue varianti (assiro e babilonese) dopo, e, soprattutto, nella scrittura cuneiforme, che avrebbe accompagnato per tre millenni lo sviluppo della civiltà mesopotamica e ne avrebbe seguito e determinato le sorti.
La scrittura cuneiforme ebbe origine nella bassa Mesopotamia (Uruk) alla fine del IV millennio a.C. e fu utilizzata in prima istanza per esprimere la lingua sumerica. Si diffuse presto in tutto il Vicino Oriente e fu adattata per esprimere lingue differenti. Nella seconda metà del II millennio a.C. non solo il cuneiforme, ma la stessa lingua babilonese divenne il mezzo utilizzato da tutte le cancellerie, compresa quella egiziana e ittita, per lo scambio della corrispondenza diplomatica. L’adozione degli strumenti per apprendere il cuneiforme portarono alla diffusione della cultura e della letteratura mesopotamica. Altri elementi di questa civiltà si diffusero con gli scambi commerciali o tramite le relazioni politiche, e le tracce di questa disseminazione nel Vicino Oriente e oltre sono documentate fin dalle fasi più arcaiche.
Alle soglie del I millennio a.C., ormai in posizione periferica rispetto alle nuove rotte commerciali e alle aree strategiche, prima fra tutte il Mediterraneo, la Mesopotamia si avvia verso una lenta decadenza. Alla perdita di indipendenza politica con la conquista persiana, seguono parallelamente altri fenomeni, in particolare la diffusione delle scritture alfabetiche e dell’aramaico che si affiancano e poi soppiantano nell’uso quotidiano e ufficiale la lingua assiro-babilonese e la scrittura cuneiforme. Gli scribi continueranno a trasmettere e comporre opere scritte in cuneiforme e in lingua babilonese, se non addirittura in sumerico, divenuta nel frattempo lingua liturgica, ma si tratta di opere destinate a una circolazione limitata.
L’influenza della Mesopotamia sulle fonti bibliche è un fenomeno molto complesso per il quale si deve tener conto del comune elemento linguistico, socio-culturale, geografico e, non da ultimo, i contatti costanti e prolungati. All’esilio babilonese si attribuisce la penetrazione di numerosi elementi mesopotamici nell’antico Testamento. La storia del diluvio mostra parallelismi con quella babilonese narrata nel Poema di Atra-hasis e ripresa nell’epopea di Gilgameš, per non parlare della torre di Babele che richiama direttamente l’edificio emblematico della cultura mesopotamica, la ziqqurat, e che per secoli ha ispirato la fantasia degli artisti occidentali.
Rispetto all’Egitto, affacciato e ancora protagonista nel nuovo scenario mediterraneo, le cui vestigia di pietra continuano a riecheggiare l’antico passato, l’immagine della Mesopotamia nelle fonti classiche appare sbiadita se non addirittura assente quando la si compari con la lunga e gloriosa tradizione delle epoche precedenti. Le ragioni di un simile destino sono diverse: di sicuro, intanto, la lontananza e l’assoggettamento al dominio persiano e partico ne hanno fatto un’area remota e esotica agli occhi dei greci e dei romani. La natura delle sue antiche vestigia fatte di mattoni cotti e crudi facili all’erosione degli agenti atmosferici ha anche favorito un rapido oblio e ne ha fatto un’area ignorata e considerata spoglia sino al XIX secolo, quando cominciò l’esplorazione sistematica della regione. Ma a queste ragioni va aggiunta la natura della documentazione mesopotamica: cosa sapevano i greci, per non dire i romani, di questa civiltà e quali erano le loro fonti?
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LORENZO VERDERAME
foto tratta da Pixabay