Domande
Il cambiamento sociale va in qualche modo promosso, spinto, indotto. Verrebbe da dare ragione a Rossana Rossanda quando, alcuni giorni fa, in una intervista a “La Stampa”, ha affermato che l’essere comunisti oggi vuol dire riprendere l’antica lezione di Lenin sul professionismo rivoluzionario. Ho storto il naso quando ho letto quelle parole perché penso che il cambiamento sociale a centottanta gradi, quindi uno stravolgimento di struttura economica e sovrastrutture d’ogni tipo, lo debbano costruire le masse e quindi sposo indubbiamente un socialismo creato dal basso, liberamente, senza schematismi, ma comunque ispirato dai comunisti attraverso un lavoro quasi pedagogico da fare in una società ormai molto lontana dai valori dell’eguaglianza, della solidarietà e della giustizia sociale.
Mi accorgo dai risultati del voto del 4 marzo che le masse non desiderano il cambiamento sociale ma aspirano al massimo ad una redistribuzione leggermente più equa delle tasse, a mantenere i privilegi acquisiti difendendo non i diritti di tutti bensì solo quelli che li riguardano in prima persona e che sono, quindi, preziosi. Tutto il resto è residuale, potenzialmente etichettabile come trascurabile: siano persone o cose.
La sinistra anticapitalista, comunista e di alternativa che propone uguaglianza sociale e civile, solidarietà di classe e non in base al luogo di nascita, pubblico contro privato, viene snobbata, trattata come un ferrovecchio e raggiunge in queste elezioni il suo minimo storico dai tempi del dopoguerra.
Il Paese non è mai un’astrazione concettuale da citare alla bene e meglio: milioni di italiani scelgono le forze di destra, variamente rappresentate tanto dai vecchi residui del berlusconismo quanto dal moderno populismo pentastellato (e da ciò che rimane del fu centrosinistra…) per rispondere alle esigenze che sentono come primarie e che rappresentano quindi i nuovi valori che si sostituiscono a quelli di una sinistra che un tempo era vasta coscienza sociale di una Italia attenta al benessere ma non per questo prigioniera dell’egoismo e della paura ossessiva del diverso e dello “straniero”.
Dunque, ancora una volta, la domanda è questa: perché la destra offre agli italiani delle soluzioni politiche convincenti che la sinistra e i comunisti non riescono ad offrire pur fondandosi sui valori costituzionali, su un elementare buonsenso basato sul principio di uguaglianza tra gli esseri umani e sulla universalità dei diritti tanto sociali quanti civili?
Una delle risposte possibili sta nell’analisi del contesto economico dei tempi in cui viviamo: la riduzione delle clausole di salvaguardia proprio dei diritti del lavoro e la compressione di ciò che rimane di un già ben povero stato-sociale generano quella povertà strutturale che diventa fenomeno di massa, quindi grimaldello che apre il cassettone dove teniamo le paure più nascoste che riguardano comunque sempre la sopravvivenza. E’ quella che chiamiamo la “guerra tra i poveri” e che la vincano sempre i ricchi è naturale, sta nelle corde del sistema capitalistico.
Purtroppo però questa guerra, fomentata dai ricchi e da loro gestita con un controllo pressoché totale dei mezzi di informazione e, quindi, di direzionamento della cosiddetta “opinione pubblica” (ma forse sarebbe meglio definirla “privata”), si trascina dietro un arretramento culturale spaventoso, fatto di pressapochismo, di pregiudizi e di vuote banalità del male piene di vere e proprie fobie antisociali.
Pertanto, se dalla crisi economica nasce la povertà e dalla povertà nasce la paura, se ne desume che dalla paura nasce il pregiudizio e da questo un giudizio quindi sommario sui fenomeni sociali che accadono, che non possono non riguardarci anche se ci parlano di terre lontane, di un mondo che ci circonda e che vorremmo far finta di non vedere.
Per questo la sinistra perde e si riduce al lumicino: perché non solo è erede di un trentennio fatto di arrivismi governativi, di seduzione operata dal potere, di pretese di pragmatismo politico fondate sulla riduzione del danno piuttosto che sul cambio dell’intero pezzo ammaccato, ma anche perché quella rimanente ha la presunzione di farsi largo con valori di uguaglianza in una società che l’uguaglianza non la vuole, non la desidera e anzi ne è profondamente spaventata.
Essere “uguali” vuol dire avere tutte e tutti gli stessi diritti, le stesse possibilità e lo stesso punto di partenza nella vita. Ora, i borghesi, i padroni, chiamateli anche imprenditori, come più vi piace, ostacoleranno per loro stessa natura nel sistema ciò che livella su un piano egualitario; la classe degli sfruttati, invece, dovrebbe sposare istintivamente la causa dell’emancipazione sociale e lottare contro tutto ciò che differenzia in base non al merito ma al diritto di nascita. Se uno nasce in una famiglia di poveri deve rimanere povero? Se nasce in una famiglia ricca è normale che rimanga ricco e che tenti di restarlo usando qualunque mezzo possibile. Lecito o illecito che sia. In fondo la liceità è frutto di leggi che sono a loro volta costruite per il mantenimento del dominio padronale e finanziario.
Sarebbe dunque “naturale” che alle elezioni politiche i poveri, gli sfruttati si esprimessero in favore di partiti che contrastano questo sistema. Invece la sinistra di alternativa, che dovrebbe rappresentare queste istanze, viene penalizzata, considerata soltanto da – siamo generosi – un 5% dell’elettorato. Quindi da meno di due milioni di cittadini (sommando i voti di Liberi e Uguali, Potere al Popolo!, Partito Comunista, Per una Sinistra rivoluzionaria). La proposta di uguaglianza sociale e civile non viene dunque recepita, non è appetibile, non interessa e viene vista come un ostacolo davanti alla risoluzione vera dei problemi che invece le forze conservatrici e di destra estrema propongono: prima della condizione di generale sfruttamento si vede il colore della pelle o si ascolta la lingua parlata, si teme l’invasione da parte degli “stranieri”, il terrorismo, il diverso culto religioso, il modo di abbigliarsi.
Dunque, ai problemi sociali la risposta non è sociale, non è di classe, non punta a controvertire la disuguaglianza in uguaglianza ma ad eliminare il diverso da noi, a individuare l’ostacolo al benessere non nel ricco ma nel povero come noi, nello sfruttato come noi. Dunque non esiste una domanda di sinistra semplicemente perché non esiste una domanda di uguaglianza per sé stessi e per gli altri.
Ci basta una “vita tranquilla” dove il privato ci conceda quei privilegi che nel pubblico sarebbero diritti. La povertà rende rabbiosi, ribelli in senso opposto: difensori inconsapevoli (nella stragrande maggioranza dei casi) dei nostri nemici di classe. La sinistra perde perché, pur avendo ragione, non incontra le ragioni egoistiche di un mondo che ha prevalso col pensiero unico e ha normalizzato i bisogni in base alle esigenze del mercato e non in base alle esigenze delle persone stesse.
Potere, popolo
Per due mesi abbiamo condotto una battaglia organizzativa per fare sì che esistesse quella politica e per cercare di dare spazio ad una nuova rappresentanza anche parlamentare delle comuniste e dei comunisti che, da ormai un decennio, sono privati di questa sponda utile per le lotte. Lo abbiamo fatto portando le nostre esperienze sociali e politiche dentro quello che sapevamo essere un punto di partenza e che, quasi preventivamente, ci era stato spiegato da un gruppo dirigente improvvisato dai solerti giovani dell’Ex Opg “Je’ so pazzo!”, doveva avere come fine non solo il superamento di una soglia di sbarramento elettorale il 4 marzo scorso ma la riconfigurazione di tutto un variegato mondo di sinistra disperso da troppo tempo.
Abbiamo pertanto messo insieme storie singole e partiti come Rifondazione Comunista, il Partito Comunista Italiano (ex PdCI), Sinistra Anticapitalista, la Rete dei Comunisti e comitati locali, organizzazioni di lotta nazionali come Euro Stop, parte del movimento No Tav e molte altre realtà della galassia dei moderni ribelli al sistema capitalista, alle dominio delle banche continentali e nazionali, all’egemonia dell’alta finanza.
Sono stati due mesi di oscuramento mediatico, di grande energia e sforzo veramente militante, di un generoso impegno in cui tantissimi di noi si sono spesi amplificando una passione che è rinata sull’onda del traguardo da raggiungere: dimostrare che era possibile arrivare a guadagnare la fiducia di almeno un milione e mezzo di sfruttati, di gente comune, di chi è precario, disoccupato, pensionato al minimo. Molti sono stati contattati da una campagna elettorale dove l’unica informazione televisiva di Potere al Popolo! diventava la strada stessa, chi al gelo di un fine febbraio siberiano è stato in istrada a volantinare, ad affiggere manifesti, a fare comizi.
In questo senso una ripresa di coscienza c’è stata in questa parte militante. Purtroppo non è stata sufficiente per arrivare al 3% ed eleggere dei deputati e dei senatori che portassero anche in Parlamento le istanze delle lotte nazionali e locali contro lo sfruttamento delle vite e dell’ambiente.
Preso atto che 371.395 voti sono insufficienti per questo scopo, è necessario unire l’analisi precedente sulla mancanza di domanda di uguaglianza alla mancanza di domanda di sinistra per avere chiaro che non si può liquidare il tutto affermando che era soltanto da due mesi che Potere al Popolo! esisteva. Perché è pur vero che l’anomalia esisteva, in senso positivo, ed era percepibile ma forse molto di più tra gli addetti ai lavori rispetto alla vasta moltitudine della popolazione che vive la politique politicienne di striscio, come un fattore secondario e magari pure marginale della propria vita.
I comunisti non hanno mai snobbato gli errori commessi, non li hanno mai minimizzati e hanno provato a studiare, capire dove era avvenuto l’inciampo e hanno provato a rimediare. Non ci sono sempre riusciti, ma questa umiltà l’hanno sempre avuta e penso la debbano conservare anche in questo frangente.
Si è detto che Potere al Popolo! era ed è presente nelle lotte: eppure queste lotte non hanno consentito alla lista di arrivare ad un risultato che permettesse la rappresentanza parlamentare di loro medesime. In alcuni casi, come tra i No Tav della Valle di Susa, il movimento si è spaccato tra voto ai grillini e voto a sinistra. Ciò significa che la costruzione delle lotte e la presenza nelle lotte sono due fattori molto diversi e che non sempre coincidono: esserci a volte può essere scambiato per “costruire” le lotte ed invece la sola presenza con alcune bandiere è doverosa partecipazione, solidarietà necessaria da parte di una forza politica di sinistra di alternativa, ma ciò non si traduce immediatamente, meccanicisticamente in un consenso sia sociale, sia elettorale.
Dobbiamo dunque reimparare che la costruzione di una nuova connessione tra bisogni e rappresentanza degli stessi è frutto di un lavoro di egemonia culturale che oggi non è esercitato dalla sinistra, dai comunisti. Noi siamo sconfitti da molto tempo ed elettoralmente lo siamo ancora di più: è questa la terza volta che non riusciamo ad essere una presenza organizzata in Parlamento e siccome Rifondazione Comunista non è un soggetto politico extraparlamentare per vocazione o per ideologia, mi permetto di considerare criticamente il risultato dell’1% raccolto da Potere al Popolo!, nemmeno deludente, direi più propriamente che va assunto come incapacità penetrativa nella società della nostra debolezza strutturale in quanto a cultura politica e cultura del sociale.
Che fa Rifondazione?
C’è chi chiama tutto ciò col contrario del suo nome: invece di “disastro” lo appella come “punto di partenza”. L’autoconsolazione della sconfitta poi, alla fine, cozza sempre contro la matematica della sconfitta, e questa ci dice che l’onda lunga delle destre ha toccato il suo apice parlamentare e istituzionale che deriva da una mutazione antropologica della società spostata su disvalori conservatori e su un frazionismo di classe (leggasi: guerra tra i poveri che non si identificano tra i poveri e che non vogliono riconoscersi come tali) provocato dalla crisi economica.
Dalle crisi economiche, solitamente la storia ci insegna, si esce da destra, con spinte autoritarie e repressive. Non vedo nulla da festeggiare con una spavalderia ribellistica indegna persino del peggiore dei sessantottini (e magari ce ne fossero…). Festeggiare surrealmente davanti alle telecamere – anche in chiave ironica, per istinto di sdrammatizzazione – m’è parso un modo dogmatico ed infantile (politicamente parlando) per evitare proprio una discussione che parta da quella ammissione di insufficienza e di totale sconfitta da cui bisogna ripartire. Ripartire senza dirsi sconfitti su tutta la linea sarebbe continuare a “festeggiare”.
Non dimentico e anzi valorizzo quella passione politica che ha animato e forse animerà ancora Potere al Popolo! il cui nome mi continua a risuonare cacofonico. Ma non è certo il primo dei problemi. Quello che sto tentanto di capire è se Rifondazione Comunista intende aprire una discussione larga tra le iscritte e gli iscritti o se invece intende assumere quasi acriticamente il risultato sposando il puerilismo dell’imperativo: “Indietro non si torna”. Un po’ muscolare come linguaggio, fatto di quella spavalderia di chi sa di essere a terra ma pretende di menare ancora fendenti ad un avversario che nemmeno lo considera più.
Credo che, così impostata, Potere al Popolo! non possa essere la forma resistente del futuro. C’è bisogno di un ritorno prima di tutto nostro ad un pragmatismo tutto gramsciano, fatto di crudi dati di fatto e non di brindisi e sorrisi in mezzo alla devastazione che le destre hanno fatto e faranno dell’Italia.
Questa è la prima riflessione che faccio, non proprio a caldo. A freddo. Al freddo di risultati che ci dicono che il “popolo” non ha recepito i nostri messaggi e il nostro programma. Oscuramento mediatico? Non può essere un alibi ma una considerazione da tenere presente. Niente alibi, per favore. Solo la crudezza dei dati e dei fatti. Abbiamo attratto un voto pari a 365.000 consensi. I fascisti ci tallonano da vicino con 50.000 voti di differenza.
Altri fascisti, xenofobi e razzisti di varia natura hanno percentuali a due cifre e tallonano l’attuale partito di governo.
Minniti perde soltanto perché fa parte di quel partito e non per le politiche che esprime. Altri le faranno ancora “meglio”…
L’Italia ha bisogno di risposte autoritarie moderate e anche di stampo neonazista per affrontare le paure antisociali espresse dalla maggioranza della società. Dobbiamo continuare? Io credo che di questo si debba parlare dentro Potere al Popolo! e dentro Rifondazione Comunista. Francamente, senza infingimenti. La critica non deve spaventare ma deve essere nutrimento di una dialettica politica che ci faccia crescere tutte e tutti in un confronto aperto. La certezza sul “continuare”, come se non fosse accaduto nulla o, peggio, considerando le elezioni politiche un mero passaggio quasi residuale nella grande voglia di partecipazione popolare che si proclama, questo sì mi spaventa più di tutto.
La presunzione è negazione della verità. E solo la verità è rivoluzionaria.
MARCO SFERINI
6 marzo 2018
foto tratta dalla pagina Facebook di Potere al Popolo!