La crisi verticale della sinistra in tutta Europa

Se si prova ad avere uno sguardo di insieme della crisi delle forze della sinistra dalla Germania alla Grecia, dall’Italia alla Francia, almeno in questo preciso momento storico di...
Jean-Luc Mélenchon e Stefanos Kasselakis

Se si prova ad avere uno sguardo di insieme della crisi delle forze della sinistra dalla Germania alla Grecia, dall’Italia alla Francia, almeno in questo preciso momento storico di sommovimenti globali e di guerre che furoreggiano dall’Est Europa al Medio Oriente, si noterà che sono tre gli assi della crisi del progressismo, abbastanza distinguibili e sintetizzabili come tali:

1. populismo di sinistra. Nel caso tedesco, la scissione da Die Linke del gruppo che fa riferimento a Sahra Wagenknecht poggia su una prospettiva che intende far convergere la classe lavoratrice con un ceto medio insofferente e prossimo alla retrocessione sociale.

Nel caso greco, il giovane, attraente e carismatico Stefanos Kasselakis, dà a SYRIZA una impronta personalistica, affidando il futuro del partito ad una riorganizzazione verticistica che sta destrutturando molta dell’organizzazione capillare sui territori.

Non va meglio in Francia, dove la NUPES muore sotto il peso di contraddizioni che sono principalmente legate alla preponderanza tanto parlamentare quanto mediatica di Mélenchon;

2. momento elettorale. Non si tratta soltanto più di una particolarità tutta italiana, di una sinistra che si aggrega prima del voto e poi si divide immediatamente dopo i deludenti risultati.

Pareva uno scenario esclusivamente circoscrivibili ad un tradizionalismo tutto nostro, eredità di un progressismo opportunistico che si era andato consolidando e accentuando dopo il 1992, dopo la fine dei grandi partiti di massa, dopo l’introduzione del maggioritario come pietra angolare di una finta democrazia dell’alternanza.

Adesso il contagio elettoralistico, unito ad un particolarismo delle posizioni, che è innescato da un ritorno al passato (come nel caso della rivolta francese dei socialisti hollandiani nei confronti della NUPES) e da un recupero delle identità politiche riferite ad un mescolamento sociale che, obiettivamente, è innegabile tanto nella vecchia Europa quanto in altre zone capitalisticamente avanzate del mondo, sta diventando un vulnus per la definizione di concreti programmi, di analisi altrettanto tali.

Impedisce, nella pratica, che le forze della sinistra possano raffrontarsi efficacemente con i ceti sociali cui intendono fare riferimento e indebolisce la loro capacità critica: il solo fine elettorale, anche se nessuno è disposto ad ammetterlo, sta diventando il fiore appassito all’occhiello di un abito che sta sempre più stretto sia alle classi popolari sia ai partiti che pretendono, in questo modo, di esaltare un pragmatismo utile alla causa.

3. internazionalismo mancato. Se un tempo era proprio la globalità della lotta, la condivisione su scala transnazionale (e transcontinentale) a cementare anche le più differenti declinazioni della sinistra comunista, anticapitalista e genericamente di alternativa, in una visione complessiva dei movimenti mondiali tanto del capitale quanto della grande massa degli sfruttati (basti pensare ai movimenti contro le guerre imperialiste, alla solidarietà tra i popoli contro le dittature ispirate da Washington, alle grandi lotte di liberazione dal Medio Oriente all’Asia, dall’America centrale a tutto il Sudamerica), oggi sembra che questa tendenza storica si sia invertita.

In Francia la NUPES deflagra anche perché il giudizio sulla guerra di Gaza separa la France Insoumise da PCF, ambientalisti e socialisti. Ma anche le questioni di politica interna contribuiscono, e non poco, a separare ciò che prima aveva trovato un comune denominatore.

In Grecia, l’arrivo dell’americano Kasselakis destabilizza le primarie, lo proietta alla dirigenza massima e, così facendo, sembra venire meno l’idea del partito strutturato e di massa con tutti i corpi intermedi che formano un pluralismo di posizioni necessario alla dialettica interna che sembra essere soffocata sotto il peso di una leadership spostatasi nettamente a destra, dove per un vero anticapitalismo non c’è posto.

In Italia non va certamente meglio: è immaginabile una condivisione di posizioni sul piano internazionale, dalla guerra in Ucraina fino a quella in Medio Oriente tra PD, Cinquestelle (includiamoli benevolmente nel fronte progressista…), Sinistra Italiana, Verdi e Rifondazione Comunista? Del tutto onestamente, al momento, proprio no.

Populismo di sinistra, elettoralismo a tutto spiano e internazionalismo mancato sono la trimurti laicamente nichilista di un retaggio culturale, politico e sociale (nonché di una analisi economica) considerato nel migliore dei casi un anacronismo; nel peggiore un mondo separato dalla realtà che deve avere da nuove forze socialisteggianti e democratiche una opzione diversa rispetto all’anticapitalismo.

Ma c’è un quarto elemento che contraddistingue le crisi verticali dei partiti progressisti del Vecchio continente: la sostituzione degli apparati di un tempo, del collegialismo delle decisioni attraverso gli organismi dirigenti plurali e sintetici al tempo stesso, con il culto diretto o indirettamente accettato e condiviso del leader di turno.

La vicenda ellenica somiglia molto – fatte tutte le debite differenze – ad una stagione renziana della politica di SYRIZA. L’uomo di successo, ex di Goldman Sachs, imprenditore, in arrivo da Miami, difensore dei diritti LGBTQIA+ e sposato con un altrettanto attraente infermiere, si catapulta alla guida di un partito che, per un qualche tempo, sotto la guida di Alexis Tsipras, aveva lasciato sperare che la Grecia potesse sottrarsi all’abbraccio mortale della Troika senza far pagare il conto ai più indigenti e deboli.

Nella crisi di SYRIZA, proprio Tsipras tace, non lo si sente. Le interpretazioni del silenzio sono quasi sempre scivolose cadute in un mare di illazioni che finiscono con il rappresentare più che altro i nostri timori piuttosto che le nostre speranze.

Diversa la caratura del leader, ma non si può negare che anche la NUPES, creatura piuttosto giovane e multiforme rispetto al consolidamento della sinistra greca così come a quello della Die Linke, si sia appoggiata non poco, ed altrettanto abbia sofferto, per l’esposizione mediatica e sovraordinatrice di un Mélenchon che ha, con la sua efficace capacità comunicativa, portato l’elettorato progressista ad un compattamento che non si vedeva da tempo.

I tentativi di scalata dell’Eliseo l’avevano certificato con una certa sicurezza.

Poi, come spesso avviene, il logorio della vita parlamentare moderna, ricca di tutte le contraddizioni date da un capitalismo in crisi ed in espansione al contempo, ha aperto vecchie ferite e le ha aggiornate secondo un vocabolario dell’oggi dove è impossibile ridurre le differenze di posizioni a linee politiche che prescindano dall’esito di un voto. E perché mai, poi, dovrebbero farlo?

Proprio nella ricerca di un delicato equilibrio tra analisi sociale e strutturazione della sinistra in seno alla società stessa e momento elettorale, si trova il cuore di una crisi endemicamente riscontrabile un po’ in tutte le forze del progressismo continentale.

La stagione dei grandi movimenti di massa antiliberisti, che avevano inventato un nuovo modo di fare politica dal basso, quasi volendo prescindere dalle vecchie elefantiache prassi partitiche, negando in questo modo tanto un approccio leninista quanto uno luxemburghiano al problema del partito come parte essenziale di un processo rivoluzionario di medio-lungo corso, non è assolutamente esclusa dalla responsabilità di aver dato seguito a delle ambivalenze che, alla fine, hanno impedito la piena riconsiderazione dell’organizzazione strutturata e, in alternativa, non sono riusciti a sostituirle nulla di particolarmente efficace ed efficiente.

Ma, in mezzo a queste destrutturazioni dei partiti progressisti, alle scissioni e alle insofferenze per l’impossessamento degli stessi da parte di mode leaderistiche e seduzioni compatibiliste con il modello liberista moderno, ha operato con costanza una alterazione delle differenze considerate degli ingombri tralasciabili, delle zavorre eliminabili per elevare all’orizzonte modernista una sinistra dell’alternanza piuttosto che dell’alternativa.

Da questa febbre elettoralistica maggioritaria sono stati contagiati un po’ tutti, perché si è trattata di una vera e propria riforma strutturale di una sovrastruttura politica mai veramente sancita a livello transnazionale, ma largamente condivisa come unico viatico possibile per la riconversione della sinistra novecentesca, del tardo passaggio del socialismo da forza critica nei confronti del capitale a forza di intermediazione tra interessi contrapposti (un tempo si sarebbe detto “di classe“).

Se tutto questo poteva essere rubricato come una svolta agli inizi del nuovo millennio, oggi la domanda che ci possiamo porre è la seguente: questa crisi dei partiti progressisti riguarda soltanto il campo progressista oppure è l’effetto di una causa più ampia che finisce per interessare anche le altre forze politiche, tanto di centrosinistra quanto di centro e di destra?

Non è facile rispondere. Ma una cosa è certa. Il proporzionalismo elettorale europeo non viene vissuto come una occasione per rinsaldare le fila delle alleanze nei futuri gruppi parlamentari di Strasburgo. Semmai viene visto come una opportunità per riprendersi spazi che le coalizioni avevano compresso e per atomizzare quello che era stato faticosamente messo insieme. Manca una chiara visione di insieme, una capacità di critica che vada oltre il momento elettorale e l’esposizione mediatica (pure necessaria) dei leader.

Manca la capacità di dare vita davvero ad una piattaforma continentale della sinistra perché manca lo spirito dell’internazionalismo che aveva dato il via a tante lotte proletarie che erano state il riconoscimento della classe in sé stessa. Immersa nel pressapochismo delle lotte particolari, priva di una vera capacità di analisi della fase degenerativa della socialità, del solidarismo, del valore comune dei beni, la sinistra in Europa procede affidandosi ad una esclusivistica e molto poco sociale ispirazione elitaria.

La crisi della civiltà moderna sta nel fallimento del capitalismo come organizzazione presuntuosamente capace di una redistribuzione della ricchezza in modo eguale.

La contraddizione del mercato, l’esasperazione dello stesso attraverso le armi della finanziarizzazione a tutto spiano, inducono i popoli a fare scelte che sono controproducenti per loro stessi; sedotti dalle ricette facili della destra, di un populismo e di un neonazionalismo a cui si affidano anche esponenti della sinistra (la scissione della Linke in Germania ce lo sta insegnando…) e che altro non è se non la faccia nascosta di una torsione sempre più autoritaria del potere che sfugge alla fragilità democratica.

La sinistra che cede a questi compromessi di potere, immagine e di una finta prospettiva di miglioramento delle condizioni sociale nello schema dell’alternanza è predestinata all’esaurimento elettorale e politico, organizzativo e sociale. La sinistra europea può invece ripensarsi, mettendo in correlazione i problemi nazionali con un più grande elaborato globale della crisi: dalle migrazioni alle guerre, dal cambiamento climatico ad una nuova idea di stato-sociale universale.

Se fossimo capaci di essere un po’ più somiglianti alle sinistre spagnole e un po’ meno a quelle italiane e, purtroppo, ora anche francesi e greche, probabilmente avremmo fatto già un passo in avanti verso questa direzione. Se fossimo capaci… Ma, per ora, non lo siamo.

MARCO SFERINI

16 novembre 2023

foto: elaborazione propria

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