Il quotidiano della Confindustria non usa mezzi termini, non ci gira intorno e lo dice apertamente: l’aumento del costo della vita fa paura alle aziende e al mondo imprenditoriale. Il perché è presto detto: da una crescita inflattiva ne deriva sempre una contrazione della domanda, perché è evidente che meno soldi si hanno in tasca e meno si compera. E se questo avviene, conseguentemente la produzione rallenta e la produttività decresce: i mercati si saturano e le borse cominciano a squalificare i titoli delle grandi aziende che pilotano l’economia capitalista in mezzo mondo.
Ci sarebbe da rallegrarsene in termini politici, da sinistra, dal settore quanto meno anticapitalista, ma non è così: perché oggi questo tipo di “crisi del padrone” non equivale ad un “avanzamento della rivoluzione” come cantavano nella seconda metà del Novecento, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70; ed allo stesso tempo l’aumento della produzione e l’incremento della produttività, l’espansione dei mercati non sono un segno di controtendenza nella ipotetica presumibile diminuzione dell’indigenza in larghe fasce della popolazione mondiale.
La pandemia ha ormai stabilito una frontiera da cui non è possibile non passare: il prima e il dopo di sé stessa. Paradossalmente, oggi sono proprio le grandi imprese ad avere il timore della fine dell’espansione del Covid-19 e del cosiddetto “ritorno alla normalità“. Una paura proporzionale al loro stato di cumulazione di capitali, dopo tanti anni di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, dettata prima di tutto dalla diminuzione dei profitti, non recuperabili con “semplici” tagli sul capitale variabile, ristrutturando le presenze in azienda, delocalizzando alla ricerca di una forza-lavoro sempre a più basso costo.
L’esercito di riserva dei tanti precari e disoccupati si sta ingrossando esponenzialmente e travalica i recinti in cui, solitamente, viene contenuto per l’esercizio consueto di ricattabilità dei lavoratori. La povertà crescente si somma a quella strutturalmente “naturale“, prodotto di scarto (ma non certo secondario) del sistema economico, ineludibile e non trascurabile più di tanto.
Per questo, visto che tutti gli indicatori dei massimi organismi di controllo delle fluttuazioni dei mercati e delle borse annunciano una fase post-Covid chiaramente interessata da un costante aumento dell’indigenza dovuto alla mancanza vera e propria dei salari, piuttosto che dalla classica, endemica diminuzione generata dal rapporto tra ricerca massima degli utili ed uguale minore costo del lavoro, l’allarme per il mondo padronale suona fin da ora, perché neppure i “ristori” di Stato saranno in grado di coprire gli ammanchi che si rovesceranno prepotentemente sulla scena sociale fatta di disperazione, di mancanze di prospettive, di migrazioni che si renderanno necessarie per la mera sopravvivenza di ciascuno. A partire dalle generazioni più giovani.
Non si può e non si deve spingersi in previsioni priva di aggancio ai fatti concreti, ai numeri reali che possediamo oggi. Se da una parte la crisi sociale si annuncia drammatica, dall’altra gli investitori temono di non poterla affrontare senza dover rinunciare ad una sostanziosa fetta di dividendi. La pandemia ha creato uno scenario insolito e nuovo, ha rivoluzionato le dinamiche capitalistiche ma non le ha di certo abbattute. Per gestire questa complicata fase di passaggio (ancora tutta da verificare sul campo) dal biennio pandemico al post-pandemia, gli industriali tentano la carta del “sostegno sociale“, dell’impresa che si fa portavoce delle esigenze collettive.
Vorrebbero investire sulla scuola, chiaramente facendone una nuova dependance non solo dei “valori” a loro cari, ma una diretta cinghia di trasmissione dei loro interessi. L’asse d’equilibrio di questi nuovi presunti “rischi di impresa” potrebbe essere la riproposizione della formula “scuola-lavoro“. Un binomio che tanto è stato praticato nella politica liberista dei governi di centrosinistra (e destra) in quanto ad “utilità” dell'”alternanza“, pensando anche a quelli che – sempre dalle pagine de “Il Sole 24 Ore” – si evince siano al momento gli impieghi meno ricoperti e quindi più richiesti dalle imprese. Si tratta per lo più di lavori nei settori della cosiddetta “information technology“, “digital & new media“, “sanità & life science“, “finanza e revisione” e il certamente più noto settore della logistica.
Il tipo di rivoluzione nel mercato del lavoro che si verrebbe a determinare è tutto in fieri, visto che stiamo parlando di vere e proprie nuove figure professionali, che esulano dal campo dei diritti riconosciuti dagli schemi contrattuali e che si affacciano per la prima volta in una nuova era dello sviluppo tanto tecnologico quanto scientifico che, proprio nel biennio pandemico, si uniscono per risolvere sia le problematiche contingenti create dalla comparsa e dalla diffusione del Covid-19 su scala planetaria, sia l’adozione futura di specifiche cure che rendano i vaccini degli accessori e non certamente l’elemento principale di contrasto del nuovo coronavirus.
Non sarà certamente facile adeguare queste nuove mansioni alla domanda delle popolazioni che dovrà essere soddisfatta dall’offerta dei privati: spazio al pubblico, infatti, se ne vede davvero molto poco. Nessuna azienda di “big pharma” è disposta ad oggi, nel nome del bene comune, a rinunciare ai brevetti di sua spontaneità (questa sì sarebbe una rivoluzione, perché rappresenterebbe un precedente importante per successive ondate pandemiche anche – e forse soprattutto – di diversa entità e potenza), e difficilmente sarà costruita una legislazione nazionale o comunitaria capace di imporre tutto ciò, facendo magari leva su quote di indennizzi.
La crisi capitalistica, dunque, pare aver trovato al momento un terreno dove potersi adagiare, nell’attesa di intravedere i settori di mercato dove incanalarsi e meglio adattarsi: una resilienza innovatrice ma non nuova. Forse misconosciuta, per esorcizzarla un poco, per illudersi che il sistema dei profitti e delle merci sia arrivato, con la pandemia, al limitare della sua storia. Ma non è così.
Le lotte che attendono le lavoratrici e i lavoratori, gli indigenti e gli sfruttati tutti sono e saranno ancora tante, perché il capitale resiste a questi urti, ma non può evitare comunque le sue contraddizioni naturali: la concentrazione sempre maggiore delle ricchezze e l’aumento esponenziale della povertà, della miseria davvero definibile come tale in un mondo che rimane sempre più a corto di risorse energetiche naturali e dovrà fare ricorso a quelle artificiali per produrre e produrre e produrre ancora…
Un simile contrasto di eventi è destinato a far crollare il sistema capitalistico. Ma non oggi e forse neppure tra un secolo. Bisogna accelerarne la dipartita: ne va della sopravvivenza di miliardi di persone, di tutti gli altri esseri viventi sul pianeta e del pianeta stesso. Perché da solo non riuscirà mai a fermarsi, ad autoregolamentarsi o a farsi regolamentare dal riformismo politico ed istituzionale (men che meno…), visto che ciò sarebbe del tutto “innaturale“, poiché farebbe scemare l’istinto di autoconservazione del sistema stesso, cioè di decine di migliaia di individui determinati a mantenere ben ferme le loro posizioni di privilegio.
La pandemia, se non ci spinge verso qualche atto rivoluzionario, almeno ci consente di riflettere in merito e di valutare l’impossibilità del riformismo come espressione falsata di un principio vagamente sovvertitore del sistema capitalistico. Non sono richiesti atti di eroismo o di sacrificio dei popoli, ma sono sicuramente evitabili stermini di massa indotti dal divario sempre più ampio tra oriente e occidente tra nord e sud del mondo, nella guerra dei poli economici continentali.
MARCO SFERINI
23 marzo 2021
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