Più del riarmo poté la crisi economica. Si potrebbe sintetizzare così il progressivo allontanamento, da parte non solo del governo italiano, dall’entusiasmo enfaticamente generale e coinvolgente su un riarmo che sembrava non conoscere freni da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, da quando la NATO ha decido di fare dell’occasione un primo, o forse anche secondo tempo nella lotta tra gli imperialismi che si giocano la partita del nuovo multipolarismo mondiale.
Gli arsenali, infatti, iniziano a svuotarsi un po’ per tutti e le elezioni presidenziali americane, così come quelle europee, iniziano a far sentire la pressione sulle forze politiche e sulle amministrazioni che cercano la necessaria riconferma dei loro mandati, anche indirettamente come nel caso del nostro Vecchio continente, per saldare la loro politiche di difesa del liberismo con il mantenimento di un potere politico che deve mostrarsi, in un certo qual modo, anche sociale.
Difficile proporsi però come difensori degli strati popolari più disagiati, colpiti dalla crisi generale che va dall’ecosistema alla guerra, dalla esiguità dei salari e delle pensioni alla destrutturazione ancora più marcata di ogni residuo di stato sociale, quando si innestano le manovre di bilancio con zero euro (o dollari) per la sanità pubblica e, al contempo, si deve puntare al 2% della spesa in chiave militare.
La NATO non transige: la guerra in Europa è funzionale a quell’allargamento dell’Alleanza atlantica verso est che, per l’appunto in questo anno e mezzo di conflitto, ha registrato nuove adesioni da parte dei paesi scandinavi e lo stesso progetto di fare dell’Ucraina un avamposto incuneato nell’estremo levante di un continente in cui, ai tempi della Guerra fredda, la divisione era ben più ad ovest, nel cuore della Mitteleuropa.
Ma la guerra è un affare e uno svantaggio al tempo stesso: riempie gli arsenali e fa guadagnare i mercati di armi se l’economia può sostenere le difficoltà comuni, il disagio sociale strutturale in un capitalismo liberista che dimostri una certa capacità di equilibrismo in mezzo alla contraddizioni endemiche che si trascina appresso.
Al contempo, diventa svantaggioso, se inizia ad erodere i consensi popolari che i governi si sono guadagnati a suon di campagne elettorali costruite su mitizzazioni fobiche di invasioni migratorie, di insicurezze e paure che, se riportate nel loro giusto contesto, finirebbero col dimostrare tutta l’inconsistenza di progetti neoautoritari, mascherati da democrazie più forti e meno fragili davanti alle problematiche del presente, e portati avanti a suon di controriforme costituzionali su autonomie differenziate e onirismi presidenzialisti.
I sondaggi danno Fratelli d’Italia, Lega e anche Forza Italia a percentuali ragguardevoli e, per questo, è piuttosto improvvido parlare di crisi della maggioranza di governo. Di certo c’è che l’esecutivo di Giorgia Meloni non se la passa benone nel momento in cui deve affrontare congiuntamente la crisi ambientale, quella migratoria, quella sociale e la questione guerra.
Il combinato disposto di questi fattori sarebbe ingestibile per qualunque governo, politico o tecnico, visto che un consulto a più voci farebbe dire a chiunque che da qualche parte bisogna pur cominciare per lenire le sofferenze del Paese e fare una manovra di bilancio che tenti di andare nella direzione di una maggiore equità sociale.
Dalle destre, ovvio, non ci si può attendere nulla di tutto ciò: il carattere filopadronale e imprenditoriale delle loro politiche esclude a priori che si possa assistere ad una pianificazione che regoli da più parti un maggiore potere di acquisto per salari e pensioni.
Di intervenire sulle accise sui carburanti, di dare una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, di regolamentare per legge un salario minimo per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, di imporre una tassazione fortemente progressiva e patrimoniale, nemmeno a dirlo.
Per questo, la guerra rimaneva l’unica scusa possibile per tenere buona una opinione pubblica sferzata dalle catastrofi naturali, dall’impazzimento del clima, dalla sovversione delle idee divenute, grazie alla voracità divulgatrice del tutto per il tutto dei social, puro e semplice odio, disprezzo, convulsione dei concetti; divenuta una grande massa rabbiosa, incapace di discernere, facile alla condanna repentina perché preventiva, pregiudiziale. Un ottimo brodo di coltura per il consenso populista e neonazionalista.
Ma le guerre sterminano chi le subisce, quindi i popoli, e logorano chi le fa. Il Pentagono, mesi e mesi fa, ha allertato il proprio governo: quella in Ucraina sarà lunga, si prospetta come una specie di nuovo Vietnam o, se proprio i paragoni li vogliamo sprecare, come un nuovo Afghanistan dei tempi più recenti.
La controffensiva di Kiev non sfonda su nessuna linea del fronte, minato, osservato dall’alto dai tanti droni che individuano i tentativi ucraini di aprire dei varchi che vengono chiusi ai fianchi. La Polonia, di sicuro il paese dell’Unione Europea più sollecito nell’invio di armi a Zelens’kyj, ha interrotto i rifornimenti con la motivazione della “guerra del grano” tra i produttori agricoli; l’Italia ci sta seriamente pensando.
La diatriba tra Tajani e Crosetto sull’annuncio dell’ottavo pacchetto di sostegno a Kiev è stata sbrogliata da Meloni in persona. L’Italia potrà ancora sostenere l’Ucraina ma «compatibilmente con le richieste che arrivano e con la necessità di non sguarnire la nostra sicurezza». Crosetto non ha usato barocchi giri di parole per palesare che «l’Italia ha già dato moltissimo. Non esiste molto ulteriore spazio. La richiesta di aiuti da parte ucraina è continua ma bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare».
Il messaggio è chiaro: il governo non ha soldi per investire in nuovi armamenti in patria, figuriamoci per dare ulteriori contributi alla guerra in corso. Non c’è argomento possibile che tenga in questi frangenti. I numeri parlano chiaro e dicono che la spesa sociale sta precipitando, per volute scelte politiche dell’esecutivo, che la povertà aumenta, che l’inflazione cresce e che la manovra finanziaria è un vero arzigogolo, un ingarbugliato nodo gordiano che non si può nemmeno recidere a filo di spada.
Oggettivamente, però, a queste motivazioni strutturali, se ne aggiungono altre di carattere prettamente politico: la guerra andrà ben oltre il voto americano e quello europeo. Proseguirà e dovrà essere oggetto di confronto con nuovi governi alle prese con le fibrillazioni nazionali e locali ma dentro un contesto globale che impedisce di separare questione sociale da questione ambientale e tutte e due da quella dei grandi movimenti migratori che non accennano a diradarsi.
L’instabilità di interi continenti è un dato acclarato, assodato, incontrovertibile. Lo sviluppo orientale di grandi economie, che vanno a concorrere con i vecchi apparati del potere occidentale, fa tremare gli Stati Uniti tanto quanto l’incompattezza della UE. L’amministrazione di Joe Biden non è in grado di far approvare l’ulteriore pacchetto di aiuti a Kiev e, contestualmente, incontra gravi difficoltà nel fare approvare i propri conti al Congresso americano.
A cosa somiglia tutto questo se non ad una crisi di un modello democratico che si scontra con una crescente perturbabilità tanto sociale quanto politica?
E’ presto per dire se siamo davanti ad una sistematicità del cortocircuito tra rappresentati e rappresentanza; in pratica ad una ripresentazione di un adeguamento tra struttura e sovrastruttura, tra capitalismo e potere, tra il modello liberista e le istituzioni che lo rappresentano e lo tutelano dagli “eccessi” delle rivendicazioni sociali, sindacali, popolari.
Ma, quello che è abbastanza certo, è che a Mosca, come anche a Pechino, questi segnali di crisi interna sono la conferma di una vastità del problema che non è scindibile dal tema della guerra e che, infatti, anche il governo italiano si pone come elemento di ulteriore accrescimento di un numero di questioni e di problemi non facili da gestire, tanto meno da risolvere nel più breve tempo possibile.
Così, la lungaggine del conflitto trasforma gli equilibri del potere fin dentro i templi della democrazia (apparente): la destrutturazione del dogma dell’aiuto senza se e senza ma a Kiev non è una precisa volontà dei governi occidentali, che hanno tutte le colpe del caso per aver inasprito un conflitto con una politica del riarmo sconsiderata, che ha sottratto cifre abnormi di dollari e di euro dalle voci di spesa sociale. E’ una conseguenza della polarizzazione della guerra stessa.
Il conflitto persiste perché la Russia non viene sconfitta, non viene piegata dalle tanto declamate sanzioni, dai provvedimenti del Tribunale Penale Internazionale dell’Aia. E la prosecuzione di questa instabilità intercontinentale non fa che avvantaggiare Pechino, non fa che rendere più debole l’economia statunitense e apre numerose infiltrazioni di contraddizioni deflagranti in una Europa sempre più divisa tra l’asse fondatore occidentale e quello visegradiano.
I tentennamenti di Crosetto e Meloni, dentro questo quadro un po’ più completo della questione, hanno un significato pragmatico: mancano i soldi per tutto. Per fare piani di contenimento dell’inflazione, della spinta migratoria, per il ripristino di un equilibrio tra territorio e popolazione, tra ambiente e lavoro; per una ricomposizione delle fratture che porteranno ora a riscaldare l’autunno già abbastanza caldo climaticamente parlando.
Il messaggio che viene dagli Stati Uniti diviene così sufficientemente chiaro: lo sforzo bellico va sostenuto ma non come prima. Non a tutti i costi. Perché proprio i costi pesano sulla concreta possibilità di essere rieletti alla Casa Bianca, di riavere una conferma di mantenimento delle percentuali e dei voti assoluti delle forze di governo di una Italia sovranista e nazionalista che inizia a dubitare delle promesse meloniane e salviniane.
La chiarezza di Crosetto è sufficiente per poter essere sicuri che, più la guerra proseguirà, e più l’Italia tenderà a tirarsi fuori dalla politica di approvazione continua di nuovi pacchetti di armamenti per l’Ucraina.
Si possono anche conquistare centinaia di chilometri quadrati di terreno, sottraendolo al momentaneo controllo dell’armata russa, ma alla fine della tragedia bellica in atto, la stabilizzazione di quel fronte meridionale e orientale è la prima vittoria di una Russia che sembra temporeggiare e, così, fare come Quinto Fabio Massimo con Annibale. Fermare il nemico là dove tenta di sfondare. Ma non sferrare l’attacco decisivo.
MARCO SFERINI
6 ottobre 2023
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