I primissimi passi del governo Meloni non tradiscono le aspettative: non si tratta tanto dell’innalzamento del tetto del contante spendibile senza tracciamento fino a 10.000 euro, che pure è una misura illogica in rapporto al crescente fenomeno inflattivo e ad un pauperismo di modernissimo ritorno che, proprio alla luce di tutto ciò, aumenterà ancora, quanto semmai della visione di insieme data già in campagna elettorale e confermata pienamente oggi.
La fiscalità è sempre stata per il mondo del conservatorismo e della reazione politica una bestia veramente nera.
Perché la contraddizione più evidente sta nel conflitto tra i proclami eclatantissimi di una destra che si richiama a quel sociale che era proprio anche del fascismo delle origini, mentre, di contro, abbraccia la visione liberista di una economia di mercato che punta ad un rafforzamento dell’apparato-Stato soltanto in funzione di una maggiore stabilità di tutto ciò che è privato.
E’ evidente che, in particolare per una coalizione tornata a Palazzo Chigi sull’onda di un riequilibrio delle forze interne, a tutti vantaggio di un “nuovo” che in realtà è un “non sperimentato” ancora (quindi solamente la figura di Giorgia Meloni come Presidente del Consiglio dei Ministri), i cosiddetti “primi cento giorni” sono molto di più in termini di valore tanto simbolico quanto concretamente politico per dimostrare la plusvalenza del governo rispetto al passato.
Fare bene è un concetto relativissimo: dipende a chi si intende fare del bene e a chi si intende nuocere il meno possibile per evitare la generazione di uno scontento diffuso a ridosso di uno slancio emotivo, di una empatia generale che ti ha portato milioni di vote in regalo, trasmigrati dai tuoi alleati e anche da settori dell’elettorato che non ha mai votato a destre e, tanto meno, un partito erede del neofascismo missino.
Affermare, quindi, che Giorgia Meloni non può permettersi di commettere errori è una asserzione che dipende esclusivamente dal punto di vista singolare di ognuno di noi: se si tratta di discutere di questioni prettamente economiche, è abbastanza lapalissiano il fatto che vi sono dei numeri che non andrebbero incrementati e dei numeri che invece andrebbero diminuiti.
Un capovolgimento delle percentuali della messa in bilancio dei fondi previsti per il riequilibrio dei conti è, anche qui, al di là della cocciutaggine della ininterpretabilità matematica dei problemi sociali, legata al tipo di politica che il governo intende avviare.
Francamente, tutto fino ad ora sembra tranne che si sia indirizzati verso un aumento della spesa sociale, verso una tassazione progressiva, verso una lotta all’evasione fiscale (i 10.000 euro di contante sono una fotografia plastica a questo proposito), verso un taglio delle spese militari e un indirizzamento dei fondi del PNRR verso l’implementazione di progetti che guardino alla tutela della salute pubblica, della scuola, dell’ambiente.
Siccome a Palazzo Chigi c’è un governo di estrema destra, tutto questo, che attiene ad un programma di forte impronta progressista e di sinistra, è inconcretizzabile.
Ma si può rivendicare. Ad iniziare dal sindacato. Si può evitare, ad esempio, come ha fatto la CISL in queste ore, di ripetere la litania inconcludente sulla politica dei redditi e puntare invece su un combinato diverso che inizi, tra l’altro, ad imporre il salario minimo per tutte e tutti a 10/12 euro all’ora. Parliamo di misure veramente minime, non di programmi massimi per orizzonte anticapitalista e socialista di questa disgraziatissima società.
E’ ovvio che tutto ciò non rientra nei programmi del governo di destra e, tanto meno, di Confindustria e affini: accadrà ancora che si procederà sulla antica comprovata via della storica concertazione tra Palazzo Chigi, sindacato e padroni ricercando un compromesso che tenga sospese le questioni più spinose, che metta al sicuro i profitti e i privilegi di pochi, concedendo qualche briciola a quella moltitudine di italiani che vive solo del proprio lavoro e che non ha altro da offrire per poter campare.
Il tragicamente buffo, in questi tempi di sommovimenti globali alimentati dalla pandemia, dalla guerra e dalla riedizione di un confronto mondiale tra poli imperialisti che si annusano in vista di futuri passaggi sulla spartizione delle sempre più esigue risorse del pianeta e di un dominio politico-militare conseguente (e preventivo), si manifesta in una chiara ambiguità che fa interagire interessi diametralmente opposti.
Questo governo, senza un contenimento del disagio sociale diffuso, non semplicemente acquietato con mancette da 200 euro una tantum, ma con riforme strutturali, rischia di avvertire la deflagrazione della bomba sociale ancora prima che le organizzazioni dei lavoratori proclamino agitazioni singolari o scioperi generali.
La crisi interclassista, che coinvolge indigenti di lungo corso, nuovi poveri e persino una parte di ceto medio, unitamente ai lavoratori precari, a quelli statali e ai tanti contrattualizzati a tempo determinatissimo, è già oggi al limite della sua capacità di resilienza, di assorbimento dei colpi che arrivano al mondo del lavoro da ben più tempo di quello che stiamo analizzando entro il biennio pandemico e la prospettiva indefinibile della guerra che si fa mondiale.
Il piano presidenzialista, di per sé, in questo contesto così particolare e pieno di incognite economiche, sociali e politiche, diventa non due ma dieci volte più pericoloso per la tenuta delle istituzioni democratiche e un arma a doppio taglio, tuttavia, anche per le destre della “Meloneconomics“.
Se, da un lato, l’accantonamento della centralità del Parlamento può giovare al progetto di accentramento dei poteri da sempre sognati dal neofascismo d’antan come riedizione moderna del regime mussoliniano, oppure come attualizzazione del “Piano di Rinascita democratica” della P2, dall’altro potrebbe rivelarsi un clamoroso boomerang proprio per la congiuntura contingente.
Tuttavia, è altresì temibile un boomerang in senso opposto e, quindi, che proprio questa commistione di fatti globali, continentali e nazionali, sommata in un mix esplosivo, aiuti il conservatorismo a identificarsi sempre più favorevolmente come reazione antisociale, filoliberista e, al contempo, a mantenere un potere che, per una eterogenesi dei fini altamente imperscrutabile, si solidifichi invece di entrare in contraddizione con sé stesso e sclerotizzare ben presto.
Le mosse che farà Meloni in questi giorni, dunque, potranno essere tanto lette tramite il filtro di diverse lenti politiche quanto scrutate con un metro economico proprio classista. Che i padroni e i finanzieri abbiano tenuto conto di tutto questo è sicuro. Che lo si stia facendo noi, sinistre diffuse, scombinate, partiti, sindacati, associazioni culturali, è decisamente poco probabile.
Una delle difficoltà più grandi a cui toccherà mettere mano, prima o poi, se si vuole ricostruire un sentire comune, una sinistra di classe in questo Paese, sta nel riavvicinare l’analisi, la critica, l’inchiesta sociale con la pratica della difesa della grande massa di sfruttati che continuano a pensare che la fonte dei loro problemi stia nel raffronto antagonistico con altre povertà e non nella mancata distribuzione della ricchezza.
In questo caso, la destra di Meloni, e anche di Salvini, ha saputo ridurre lo iato che c’era tra il proclama comiziale della soluzione dei problemi della moltitudine di indigenza che è aumentata a dismisura da decenni a questa parte (basti tenere a mente il dato della mancata crescita salariale in Italia rispetto al resto d’Europa) e una pragmatica attenzione alla conservazione del potere istituzionale, usando una pacatezza e una sobrietà accecanti per quanto platealmente spregiudicate.
Il contrasto tra le destre di lotta e quelle di governo è, per ora, contenuto dentro l’inizio di una legislatura in cui, mai come prima, il fu “centrodestra” si gioca praticamente la partita della vita, della stessa sopravvivenza futura. Gli italiani, in larga parte, sono estremamente volubili nelle scelte politiche: soprattutto dopo che le ideologie sono state abolite con il decreto non scritto del primo grillismo, dell’avvento sulla scena del populismo su vastissima scala.
Tocca alla sinistra di alternativa risolvere il suo eterno dilemma tra lotta e governo, tra momento elettorale e tanti, tantissimi momenti sociali e civili. Almeno questo tipo di lavoro, di certo non manca. L’opposizione va ricostruita, perché i disastri antisociali del governo si preannunciano imminenti e di lunga portata. L’opposizione va ricostruita e, per questo, tutto va messo in discussione. Per primi noi stessi.
MARCO SFERINI
29 ottobre 2022
Foto di Pixabay