Indicatore della crisi del Parlamento, dello scompaginamento dei ruoli di maggioranza ed opposizione dentro il contesto della grande alleanza trasversale che sostiene il governo Draghi, è anzitutto in questi giorni il dibattito che insiste sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Gennaio e febbraio saranno due mesi caldi, nonostante ci si trovi in pieno inverno: la partita del Quirinale, la proroga dello stato di emergenza sanitaria e la ricalibratura degli equilibri che reggono l’esecutivo, il tutto nel quadro di sviluppo della manovra finanziaria e di attribuzione delle cifre spendibili col PNRR, ce n’è abbastanza per infiammare gli animi e permettere ai tanti strumentalizzatori del caso di farsi avanti e profittarne.
Se Sergio Mattarella ha lasciato trapelare il suo stupore e la sua indignazione per le interpretazioni forzate del disegno di legge a firma Zanda, Parrini e Bressa volto ad inserire nella Costituzione la clausola di non rieleggibilità del Capo dello Stato, lo ha fatto probabilmente – più che per espressione di un disagio personale – col fine di mettere una parola conclusiva circa l’ipotesi tanto di una propria riconferma al Colle, quanto di una abitraria ripetizione di una eccezione che caratterizzò la presidenza Napolitano e ruppe la tradizionale declinazione del dettato costituzionale sul settennato, per cui al termine dello stesso si è sempre scelto un nuovo presidente.
Proprio la durata della carica fu oggetto di un dibattito molto ampio in seno all’Assemblea costituente: si cercò allora di trovare un compromesso tra la necessità democratica di limitare nel tempo la presenza al Quirinale e, parimenti, dare una sorta di stabilità all’alto ufficio della Presidenza della Repubblica che, sola insieme al ruolo di giudice della Corte Costituzionale, è quella che dura più a lungo, proprio per ottemperare a quella funzione di garanzia che le compete.
Appena usciti dalla forma monarchica dello Stato, i Costituenti vollero evitare presidenze troppo corte, che non dessero al nuovo ruolo di rappresentanza dell’unità della nazione quel prestigio che meritava, ed al contempo scelsero di non normare la possibilità di un prolungamento del settennato, intendendo lasciare alla piena libertà del Parlamento di decidere in merito stabilendo quindi una regola non scritta che, per una volta nella vita del Paese, diventasse una consuetudine, un consolidamento istituzionale riconosciuto universalmente.
Il dibattito di queste settimane, soprattutto quello di questi ultimi giorni, ha previsto persino della autocandidature, delle serie di nomi fatti per agitare le acque, per studiare le mosse e le contromosse dei vari partiti presenti nelle Camere. Anche in questo caso, quelle forzature, sottolineate più volte da Sergio Mattarella, come elementi del tutto evitabili nella ricerca del suo successore, sono utilizzate da una politica ricca di confusione, in larga parte preoccupata della propria permanenza tanto il Parlamento quanto al governo qualora Mario Draghi dovesse trasferirsi da Palazzo Chigi al Quirinale.
Partiti e movimenti non temono tanto le implicanze di carattere costituzionale, le difficoltà interpretative su chi dovrà essere in quel caso a tenere le consultazioni per un nuovo governo: il livello dello scontro è molto più terra terra, veramente basso e connota una politica in corto circuito, disperata e in preda al panico qualora saltasse completamente lo schema attuale. Infatti, se Draghi fosse chiamato al Quirinale dal voto delle Camere, questo potrebbe – in ipotesi, si intende – avvenire soltanto se quel voto fosse veramente blindato da un patto che veda tutti i partiti accettare la temporanea presidenza del consiglio da parte del ministro più anziano (Renato Brunetta), garantendo così l’evitamento di una crisi di governo e il tanto paventato scioglimento delle Camere.
Il dilemma esiste, almeno in punta di diritto costituzionale. Ci dicono le cronache che, proprio in queste ore, gli uffici tecnici del Quirinale e quelli della Camera dei Deputati sono al lavoro per vagliare tutti gli scenari possibili ed evitare che si creino vuoti di potere, tempi morti e situazioni di stallo pericolose tanto per la stabilità democratica della Repubblica quanto per l’interesse economico e sociale del Paese.
Sta di fatto che la partita del Colle in questo momento non fa che scrivere un diario di angosciante attesa per quanto potrà avvenire: molti nomi sono stati praticamente già bruciati nel corso degli ultimi mesi. Resiste Silvio Berlusconi: non si sa ancora bene se faccia sul serio o se sia tutta una tattica per sparigliare le carte sul tavolo da gioco e nascondere per ora gli assi nelle maniche del centrodestra. Sia quel sia, sarebbe veramente incredibile che a ricoprire il massimo ruolo di garanzia delle istituzioni sia un condannato in via definitiva per frode fiscale, quindi per aver rubato al suo stesso Paese. Ma ne abbiamo viste così tante che stupirsi preventivamente è il minimo sindacale per poter assorbire l’eventuale colpo in arrivo.
La condanna definitiva del Cavaliere nero di Arcore non è il solo aspetto inquietante della vicenda: la storia politica di Berlusconi è incompatibile con la carica di Presidente della Repubblica che dovrebbe essere un po’ platonicamente intesa, come ricopribile solamente da cittadini che si sono adoperati per il bene comune piuttosto che per l’interesse personale e privato.
Esistono poi delle obiezioni nuovamente ritrovabili nel diritto costituzionale e che riguardano la non prevedibilità di quelle che potrebbero essere definite delle “candidature legali”, quindi dei criteri per individuare i possibili nomi da proporre al Parlamento per la scelta del Presidente della Repubblica.
I Padri costituenti decisero allora di fare in modo che proprio le Camere, cuore legislativo e rappresentativo della nuova Italia che usciva dal ventennio fascista e dalla guerra, avessero pienezza di valutazione e fossero completamente sciolte da qualunque indicazione strettamente di partito, pur sapendo che una certa influenza politica sarebbe stata inevitabile. Ciò che importava era che non fosse preponderante e non travalicasse le prerogative tanto del Parlamento, piuttosto tecniche in questo caso, quanto quelle più strettamente istituzionali e rappresentative proprio della presidenza della Repubblica.
Via via che la vita dell’Italia post-bellica ha messo radici, pur tra mille contraddizioni sociali, ineguaglianze difficilmente superabili e condizionamenti esterni dai tratti pure eversivi e golpisti – a tutta tutela degli interessi della borghesia e della grande finanza nel gioco planetario e globale dei due blocchi contrapposti prima e del multipolarismo poi – è stata proprio la figura del Presidente della Repubblica ad assumere una connotazione sempre più politica e sempre meno rappresentativa. Nel corretto perimetro dei poteri conferitigli dalla Costituzione. Fatta salvo l’eccezione cossighiana seguita dall’anomalia della presidenza ripetuta di Giorgio Napolitano.
Nella storia della Repubblica italiana, lo si può affermare senza tema di smentita, il Quirinale ha molte volte garantito quella armonizzazione nei rapporti tra i poteri dello Stato che altrimenti sarebbero entrati in contrasto tra loro aprendo la strada a momenti di destabilizzazione anche gravi e, in quanto tali, ghiotte occasioni per tutti quei movimenti eversivi di destra, per tutti quei revanchisti dei “pieni poteri” e dell’uomo forte da solo al comando, che non aspettano da sempre altro se non ridimensionare il ruolo del Parlamento e aprire la strada ad una presidenzializzazione della Repubblica.
Per questo il dibattito che avvolge la questione della successione di Sergio Mattarella è da osservare con spirito critico e con vigilanza repubblicana: troppi interessi divergenti finiscono con il generare eterogenesi imprevedibili, sfuggevoli alla forma e alla sostanza della nomina dell’elezione del Presidente della Repubblica. Schegge impazzite in un momento estremamente delicato; un momento in cui la piena consapevolezza di cosa voglia dire aderire ai princìpi della morale politica costituzionale e al laicismo repubblicano sembra essere subordinata a spinte così forti di interessi particolari da far dimenticare proprio il bene comune e l’unità del Paese in una dinamica sociale e collettiva.
MARCO SFERINI
4 dicembre 2021
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