La novità è che ci sono poche novità. Non tanto nella disposizione dei voti che sostengono il governo alla Camera dei Deputati e che gli consegnano una fiducia data, giustamente, per certa, quanto nel discorso del Presidente del Consiglio: le autocritiche e i rimproveri a sé stesso e all’esecutivo, non fosse altro per la ingarbugliata gestione della cosiddetta “seconda fase” della pandemia, sono veramente al limite dell’invisibile. Se vi si aggiunge il timore per il passaggio sotto la forca caudina oggi al Senato della Repubblica, è evidente che non ci si potesse attendere, da un punto di vista (ci sia permesso) strettamente “di sinistra” e “sociale“, una apertura a misure economiche di tassazione progressiva e patrimoniale che avrebbero permesso di distinguerlo ancora meglio dai precedenti esperimenti fatti da Conte a Palazzo Chigi.
E’ lapalissiano nel terribile gioco delle alternanze, ormai in uso da un trentennio a questa parte, che il meno peggio è l’attuale governo rispetto a ciò che si prospetterebbe con Salvini, Meloni e Tajani, più Toti, frange di estremissima destra nostalgica del ventennio o di neosovranisti che negano il Covid, l’importanza delle mascherine e pensano che qualcosa di vero in fondo ci sia nei deliri di QAnon. Ma sappiamo ormai molto bene che da un governo formato da un asse liberista – populista (PD – Cinquestelle) ci si può al massimo attendere la difesa dei diritti civili (il che non è affatto poco), il contrasto dell’omofobia (il che non è mai affatto scontato quando si incontra il potere de visu), la difesa senza – senza troppi sguardi all’Oltre Tevere – dei diritti delle donne ed anche una aderenza senza infingimenti ai princìpi costituzionali, ai valori della Resistenza.
La politica dei valori civili fa parte, del resto, del liberalismo già novecentesco e cresce grazie alla spinta rivoluzionaria socialista e comunista ma, pur sempre, viene allevata nel grembo di una visione conforme ai dettami del “libero mercato“, delle compatibilità con il capitalismo che ha tutto l’interesse a mostrare un lato benevolo e ipocritamente libertario finché non si tratta di rivendicazioni sociali, di messa in discussione del potere economico. Si tratta di un discorso che travalica la questione di fiducia al governo Conte bis: siamo davanti ad un monolitico paradigma che emerge dalle ceneri del proporzionalismo, di una cultura divisiva eppure unitaria della politica, quando le idee erano figlie delle ideologie ed esistevano confini ben più vasti per una trasformazione del Paese che poteva trovarsi anche nella più insignificante delle leggi approvate dal Parlamento.
La funzione del fulcro della nostra Repubblica era nella discussione asperrima, circondata anche dalla corruttela di un sistema incancrenitosi con l’avvicendarsi al potere di emeriti ruffiani che guardavano al socialismo tanto quanto al loro personale interesse e conto bancario; ma alla fine il dibattito nel Paese era chiaro: persino il più a digiuno di politica e di storia dei partiti sapeva da che parte schierarsi. L’operaio votava comunista, socialista, demoproletario. Il borghese di città, l’altolocato, il commendatore e il padrone di grande industria votavano la Democrazia Cristiana o il Partito Liberale. Quelli “più progressisti si avventuravano al voto con una croce sull’edera repubblicana e il cosiddetto “ceto medio” ondeggiava tra il garofano e il sole nascente dei socialdemocratici.
Dal grande industriale al piccolo bottegaio di provincia, il Pentapartito sapeva di avere quella composizione eterogenea (e vagamente interclassista) che avrebbe fatto da argine alla grande massa operaia, a chi rivendicava i diritti sociali sia accettando delle riforme di struttura, stando dentro il perimetro del “controllo del mercato“, sia proponendo una via rivoluzionaria che sarebbe dovuta arrivare. Prima o poi.
La legge elettorale proporzionale pura permetteva di rimanere ovunque fratelli o cugini separati. Questa composizione e scomposizione delle dinamiche politiche, riflesse dalla e nella società italiana, si è nutrita per molto tempo di un retaggio antifascista forte che distingueva tutti i partiti dal neofascismo del MSI, non messi al bando e fuorilegge, colpevolmente tollerati da una democrazia che loro non avrebbero mai concesso a nessun avversario, tanto meno a nessun nemico.
Se oggi discutiamo dell’ennesimo balletto tra poli opposti, e lo facciamo per di più, senza avere nemmeno contezza delle ragioni vere della crisi di governo, tutto questo alla fine non è altro se non figlio di tempi peggiori di quelli che avevamo immaginato fossero già abbastanza cupi: dall’intromissione imprenditoriale diretta nella rappresentanza politica (il berlusconismo) alla ripetizione di governi tecnici che hanno aperto solchi enormi tra la stragrande maggioranza di un crescente numero di nuovi poveri e la sempre più evanescente rivendicazione di diritti fondamentali, dati per acquisiti e svaniti nel nome della “modernità” e della “governabilità“. L’una funzionale all’altra scambievolmente, simbioticamente.
Non è proprio una colpa scorgere nell’ultimo governo non di estrema destra il salvatore della patria. E’ una forma di miopia politica che discende da una consuetudine. E siccome siamo esseri abitudinari, ci siamo via via convinti che chi ha dato vita all’epoca del precariato, chi ha alzato l’età pensionabile, chi ha messo sotto accusa la Legge 300, l’articolo 18 invocando la libertà di licenziamento in nome della difesa del lavoro stesso (sic!), chi ha fatto della scuola un opificio di menti da gestire mediante le regole del moderno liberismo, chi ha dato ai presidi poteri illimitati nel nome della “buona scuola” stessa, chi ha chiamato “Jobs act” (fa figo all’inglese…) norme che hanno rimodulato così tanto i contratti di lavoro da fare della flessibilità un caro ricordo antisociale, chi ha evocato l’Europa per la salvezza dei conti pubblici ad ogni passo falso del capitalismo italiano, ebbene chi ha fatto tutto – o in parte – questo l’abbiamo riconosciuto come un liberatore se batteva le destre.
Intanto, mentre la sinistra comunista e di alternativa spariva sotto il peso dello stigma dell’irrilevanza nella lotta contro l’impero del male, si consentiva ad una finta sinistra molto di governo e per niente di piazza, tanto liberista e affatto socialista, di diventare l’arbitro di una governabilità accettata dagli industriali quale compromesso onorevole per ottenere quella “pace sociale” impossibile con l’estrema destra.
La storia si è ripetuta molte volte in questi decenni, ha ripercorso le stesse strade battute da una politica svenevole, priva di significato, che ha condannato le ideologie e si è reinventata qualche mito rivoluzionario di piccolissima statura (anche morale) mediante un populismo pentastellato che si è fermato sulla soglia della critica istituzionale della “casta“, ma mai dell’origine della medesima e dei padrini economici che l’hanno sempre accudita, protetta e coccolata.
Oppure, ha provato, fallendo, a trasformare quel mostro bicefalo del PD in un partito ultra-centrista, troppo smaccatamente distante da quella porzione ancora importante di società che ne individua la ragione politica a sinistra: in parte erede degli eredi (si fa per dire…) del PCI; in parte erede degli eredi (forse anche qui si fa per dire…) della DC. L’opzione renziana, che oggi diventa affondatrice di un governo che aveva fondato nel nome del contrasto dei “pieni poteri” salviniani, era indigesta tanto al centro quanto a sinistra. Era una compromissione che andava oltre il compromesso tra socialdemocratici e cattolici. Troppo persino per due acclarati riformismi d’epoca.
Ultimo ma non ultimo per questo, il sovranismo trasformista della Lega, da ampolloso autocelebrativo messianico messaggio di separatismo del nord dal resto del Paese ad acceso neonazionalismo identitario, autarchico, sposo novello di neofascismi che prima erano affidati alla cura di qualche energumeno fisicamente sfatto e con le corna sciamaniche su una testa pressoché vuota.
L’eredità dei primi cinquant’anni della Repubblica, che sembrava dover andare in dote ad una Italia rivoluzionata da Mani pulite e dalla canea giustizialista, è finita tra le braccia del potere che si è riciclato e adattato ai tempi, stando bene attento ad individuare figure di riferimento ora più e ora meno giovani per assestare colpi decisivi ad un impianto costituzionale che ha – fatta eccezione per il Titolo V (che ora un po’ tutti vogliono ampiamente rivedere) – sostanzialmente retto alle scosse telluriche dei decostruttori della democrazia parlamentare. Di quella sociale non si può, purtroppo, dire la stessa cosa.
Oggi Conte affronta la mina vagante del Senato, dove la maggioranza rischia di sfuggirgli di mano, come una anguilla che non vuole finire nel piatto del rimpasto e della rimodulazione delle competenze di ministri e forze politiche. Il partito dei “popolari” è in costruzione: si parla di un ridisegnamento dei confini del centro democristiano, di un risorgimento della Balena bianca in chiave certamente minore. Ma tanto basta per far sorridere i vandeani che inneggiano all’occupazione di un ministero della famiglia per attuare l’agenda del “Family day” e magari essere uno dei punti di riferimento e interlocutori del Vaticano al di qua del Tevere.
La sorte del governo è legata ormai alle sue debolezze, che si sono accentuate: non sono sufficienti i “costruttori” singoli per restituire al “Conte 2” un’aura di autorevolezza: a meno che il governo non centri l’obiettivo di tornare estremamente popolare con una campagna di vaccinazioni che sia la Stalingrado del Covid-19 in Italia. Forse, più della Binetti e della Polverini, sarebbe alla fine questo il vero, il solo trampolino di lancio per il partito del Presidente del Consiglio, per il “patto di legislatura” fino al 2023 e per schermare ogni attacco pretestuoso da parte di quelle destre che erano, sono e rimangono un pericolo duplice per la democrazia, per la Repubblica, per i più indigenti della nostra società.
MARCO SFERINI
19 gennaio 2021
foto: screenshot