La crisi climatica e il tempo che sempre più ci manca…

I metodi scelti dai ragazzi e dalle ragazze di Ultima generazione non mi piacevano. Bloccare il traffico, sporcare, anche se con vernici lavabilissime, i monumenti e i palazzi storici...

I metodi scelti dai ragazzi e dalle ragazze di Ultima generazione non mi piacevano. Bloccare il traffico, sporcare, anche se con vernici lavabilissime, i monumenti e i palazzi storici delle nostre città, oppure imbrattare i vetri dei capolavori dell’arte… Attirare l’attenzione così mi sembrava controproducente proprio per la causa giusta che, invece, ritenevo (e ritengo) di primissima importanza per tutte e per tutti.

Il modo era sbagliato, ma le ragioni erano sacrosante. Poi è arrivato il governo Meloni, con la sua spiccata, marcata, endogenissima, primitiva e retromissina voglia di reprimere qualunque forma di dissenso e, ancora di più, di farlo con strumenti dichiarati legali mediante l’approvazione di decreti e leggi per cui, se ti siedi per terra e fai un sit-in (appunto…), rischi multe salatissime e anni e anni di carcere.

Le prove del mutamento climatico erano già sufficientemente evidenti ben prima che queste ragazze e questi ragazzi si impegnassero in prima persona in una lotta quasi corpo a corpo con il muro di omertà cosciente di tanti di noi che non volevano vedere, accorgersi ed essere quindi coscienti delle responsabilità singole e collettive per questo cambiamento radicale dei fenomeni meteorologici.

Ma Ultima generazione, così come molte altre associazioni sparse in tutta Europa e nel mondo, ha avuto il merito di schiaffeggiarci (benevolmente), risvegliandoci dal torpore delle comodità quotidiane, da un consumismo che, lo si voglia o meno, è il comodo cuscino su cui poggiamo delle terga doloranti dalle tante scomodità che affrontiamo durante le nostre giornate: dallo sfruttamento nei luoghi di lavoro alla vera e propria invivibilità dell’esistenza.

La crisi economica prepandemica si è trasformata in una crisi multistrato: complice la Covid19, certamente, ma, soprattutto, la guerra che è tornata a farla da padrona nella riconfigurazione di una competizione multipolare che ha sostituito, decennio dopo decennio, la finzione unipolare che pareva essersi egregiamente sostituita al confronto tra le due superpotenze al tempo della Guerra fredda.

Adesso di freddo è rimasto il gelo nelle ossa in cui ci precipitano inverni sempre più inclementi che si alternano ad estati roventissime: primavere ed autunni sono pressoché stagioni di mezzo che stanno via via scomparendo e lasciando il passo ad una bidimensionalità climatica che porta con sé quegli eventi estremi che imperversano sempre di più e con cui – dicono gli esperti del clima – dobbiamo iniziare a fare i conti.

L’adattamento è l’unica possibilità di preservazione al massimo livello della nostra incolumità? Siamo arrivati al punto che non abbiamo altra via di scampo se non la rassegnazione ad una resilienza impotente e priva di qualunque mordente critico, così da provare ad invertire la tendenza, cercando di evitare il peggio? E poi: siamo certi di non essere già in una condizione di massima allerta e che, dunque, il peggio sia già fra noi?

Sono tutte domande che si pongono anche i climatologi e i meteorolgi che ci spiegano in televisione e su Internet come difenderci da eventi avversi per l’esistenza tanto della nostra specie umana quanto per tutte le altre specie che, a differenza di noi, patiscono ogni giorno gli effetti del clima che troppe volte, inopportunamente ma con un certa voglia di autoconsolazione e di giustificazione delle malefatte al pianeta, abbiamo definito “impazzito“.

La temperatura globale è salita dell’1.3° centigradi e i mari, in particolare il Mediterraneo, registrano 22° proprio in questi giorni e proprio davanti alle coste della Spagna. In Italia, dicono sempre gli scienziati, va ancora peggio. Che cosa accade? Che eventi come la “gota fria” saranno sempre più probabili anche se difficilmente prevedibili, perché questi cumuli di umidità, date certe premesse, certe condizioni specifiche, si trasformano prima in temporali violenti e poi in veri e propri fenomeni catastrofici.

Catastrofici perché nel giro di meno di ventiquattro ore si rovescia sul suolo di una città o di una regione tutta la pioggia che, generalmente, vi ricade nel corso di un anno. Non servono molti calcoli matematici per capire che, anche tentando di prevenire il più possibile, i danni li dovremo contare con sempre maggiore frequenza, perché il pianeta ci sta dicendo che noi siamo diventati invivibili per lui tanto quanto lui lo diviene per noi.

Le trasformazioni cui assistiamo sono il frutto di una industrializzazione esasperata che ha attraversato tre secoli e che, in particolare nel Novecento, ha conosciuto una accelerazione irrefrenabile, spinta dalla voracità di un capitalismo liberista che non conosce nessuna etica ambientale, al pari della impossibilità da parte della classe imprenditoriale di gestire i propri profitti seguendo una logica morale nei confronti delle maestranze e dei moderni proletari.

Tuttavia, la prudenza nello stabilire un diretto collegamento tra gli eventi del clima avverso e il mutamento climatico in corso è, almeno per chi studia a fondo questi fenomeni, d’obbligo; non fosse altro per evitare allarmismi che creano ancora maggiore incertezza, diffidenza e, nei casi più estremi, smaccate tendenze a fare del tutto un complotto di chissà quale associazione mondiale di questo o quel miliardario o setta.

Non c’è dubbio che i ricchissimi abbiano avuto un ruolo esiziale, una funzione propulsiva nell’alimentare una concorrenza spietata fra di loro che li ha indotti a massificare le produzioni: deforestazione, coltivazioni selvagge di soia per sostenere gli allevamenti intensivi di animali destinati, in pochissimo tempo e in condizioni di degrado terribili, ad una macellazione che altera tutti i tempi dettati invece dalla natura.

Se si analizza la questione climatica attentamente, non si può pensare di disgiungerla dalla struttura economica attuale, dalla prepotenza capitalistica, dalla cecità che induce in ognuno di noi nel provare a guardare la propensione alla godibilità di ogni merce possibile, mentre il discapito per le specie viventi (e senzienti) diviene esponenziale.

Unitamente alla modificazione degli equilibri climatici viaggia quella dell’ecosistema nel suo complesso: l’antropocentrismo, che è ovviamente proprio del capitalismo in quanto fenomeno esclusivamente prodotto della nostra specie, detta le regole che sono apparentemente utili ad uno sviluppo moderno per tutto e per tutti ma che, in realtà, mettono al servizio dell’umanità il resto degli esseri viventi e della natura.

La considerazione degli animali non umani non come individui da rispettare nel loro ciclo naturale di vita, ma come un qualcosa che somigli ad un prodotto da consumare, ad un essere da utilizzare in giochi circensi come in tradizioni secolari che costringono cavalli, tori, capre, cani a sforzi inauditi e, spesso, a rimanere uccisi per tutto ciò, è una conseguenza dell’antropocentrismo.

Allo stesso modo gli allevamenti intensivi seguono il dettame di un’antietica capitalistica che fa di polli, conigli, mucche e maiali dei veri e propri oggetti (e non più soggetti) al nostro servizio e che, nei passaggi della filiera produttiva, divengono i principali fattori inquinanti per il pianeta. La maggior parte della diossina che si libera nell’atmosfera proviene proprio da questi luoghi infernali per gli animali che non siamo noi.

L’energia che serve per mandare avanti questi grandissimi impianti di tortura e di trasformazione dell’esistenza di miliardi di esseri senzienti in cibo (che alla fine, sui banchi dei supermercati e tra le fette di pane delle catene di hamburger, non somigliano più a ciò che realmente erano e ci permettono quindi di evitare qualunque considerazione psicologico-etica in tal senso) è responsabile – secondo calcoli contenuti nelle relazioni fatte al Parlamento europeo – del 77% delle emissioni di gas serra.

Circa un 10,5% di queste emissioni, poi, proviene da regimi di mantenimento agricolo dei terreni ipersfruttati per coltivazioni che servono al funzionamento dell’intensività produttiva degli allevamenti. Le altre industrie, invece, sarebbero meno energivore e quindi svilupperebbero un impatto sull’ambiente pari al 9% di incremento del gas serra nell’atmosfera. Le altre piccole percentuali sono quelle che servono agli otto miliardi di esseri umani per sopravvivere sulla Terra.

L’emissione di questi gas ha creato una barriera al di sotto della quale il clima è stato costretto a cambiare repentinamente, senza poter più seguire il proprio ciclo naturale. Il cambiamento climatico, quindi, è frutto di scelte sbagliate che riguardano anche la produzione di automobili, armi che alimentano le politiche di guerra (e viceversa); ma è soprattutto figlio di un modo di rapportarsi con la natura e con gli altri abitanti del pianeta che mette al centro esclusivamente l’essere umano, l’animale umano.

Non si salvano, ovviamente, nemmeno i mari: la pesca a strascico, il depredamento degli oceani, le coltivazioni ittiche su vasta scala soddisfano la domanda alimentare solamente per l’Occidente ricco e per certe zone del resto di un mondo in cui si salva solo chi può permetterselo, mentre la fame diviene sempre più fenomeno che somiglia sempre meno ai contorni del solo continente africano ma si sposta in quello del subcontinente indiano e nell’America Latina.

La tragedia di Valencia, con almeno centosessanta morti accertati e oltre centoventimila sfollati, è, alla fine di questa ricostruzione delle ragioni della crisi globale del clima, attribuibile ad una economia distruttiva che divora tutto quello che le permette di perpetuarsi, senza curarsi delle conseguenze. Il profitto rimane all’apice dell’antropizzazione dei territori, dell’antropocentrismo che è caratteristica di un liberismo in cui non c’è spazio per altro.

Luoghi, obiettivi, modi e metodi dei ragazzi e delle ragazze di Ultima generazione facevano storcere il naso anche a me quando li vedevo messi in pratica, coraggiosamente seduti davanti a file di macchine per cercare di sollevare un po’ la critica dell’opinione pubblica nei confronti del mutamento climatico. Non ho cambiato idea: penso che anche una lotta non violenta debba trovare il modo di farsi ascoltare differentemente e non forzando gli altri e facendoli sentire colpevoli.

Però, davanti alle catastrofi che ci travolgono, davanti all’evidenza con cui la natura ci spiega che siamo noi la causa della violenza che ci si riversa contro (e che interpretiamo come tale perché il clima diviene insostenibile per le specie viventi, mentre è, in fin dei conti, un mutamento del tutto naturale in presenza di eventi non naturali), anche i gesti apparentemente estremi dei giovani di Ultima generazione paiono, come avrebbe detto Totò, bazzecole.

La posta in gioco è la sopravvivenza della nostra come delle altre specie. Mediamente – dicono gli scienziati – una specie ha un ciclo di vita di qualche milione di anni. Nella storia dell’evoluzione si è arrivati a calcolare fino a cinque milioni. Noi animali umani siamo comparsi come Sapiens circa due, due virgola cinque milioni di anni fa. Date le condizioni attuali è altamente improbabile che si possa durare ancora altrettanto tempo.

La Terra ci sopravviverà comunque e così i microbi e le altre forme di vita primordiali. Ma avremmo qualche speranza in più se invertissimo la china, se abbandonassimo per primi noi un modo di vivere che non rispetta la natura, che ne fa strame e che tiene in considerazione solamente il profitto e lo sfruttamento delle risorse. Di questo passo gli eventi catastrofici ci travolgeranno e nessun adattamento sarà possibile su un lungo, anche lunghissimo termine temporale.

Non  si tratta di disegnare scenari apocalittici, perché l’apocalisse è già qui: l’ecatombe di Valencia che cos’è se non una distruzione totale di paesi, di esistenze, di comunità? Si può anche considerare la tragedia che ha colpito le regioni spagnole come un fenomeno isolato, minimizzando la portata di questi eventi. Ma la ciclicità con cui si ripetono, la violenza con cui si manifestano (basti pensare alle alluvioni in Emilia Romagna e ai fenomeni subiti dalla Liguria) sono sempre più frequenti.

Quindi è davvero difficile pensare di poter sostenere la teoria dell’esagerazione, dell’inesistenza del cambiamento climatico. Il dato di fatto c’è: resta da capire quanta incidenza avrà e con che frequenza la avrà e come si ripercuoterà il tutto su una competizione globale che non mette in discussione il sistema economico-produttivo in quanto tale ma è, al massimo, in grado – proprio strutturalmente – di modificare i rapporti di forza tra i poli esistenti e non di controvertirsi.

Il cambiamento indotto dalla natura, che potrebbe mettere fine al capitalismo moderno, sarà sempre più gravoso di un mutamento rivoluzionario dal basso. Il problema sono i tempi. L’anticapitalismo è in ritardo rispetto alla celerità con cui questa economia annichilitrice avanza e sfrutta tutto e tutti costringendo la natura a rovesciarsi su sé stessa e su di noi. È una lotta contro il tempo: e non è detto che si riesca, purtroppo, a vincerla.

MARCO SFERINI

1° novembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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