La crisi bancaria e la competizione mondiale degli imperi

Una rondine non fa primavera e una banca che fallisce non fa il crollo dell’intero sistema economico e finanziario. Tanto peggio, tanto meglio in questi casi, ma da qui...

Una rondine non fa primavera e una banca che fallisce non fa il crollo dell’intero sistema economico e finanziario. Tanto peggio, tanto meglio in questi casi, ma da qui a sperare che i segnali di una crisi strutturale, un po’ come quella del 2008-2009, si possano evincere dal crac della Silicon Vallet Bank (SVB).

Per lo più, si è trattato di un investimento completamente sbagliato: le somme dei grandi clienti, aziende ed industrie quasi tutte impegnate nella produzione tecnologico-informatica, sono state messe a frutto in titoli garantiti su un lungo periodo e, proprio per questo, più redditizi ma anche più rischiosi.

Il cambio di politica della Federal Reserve sui tassi di interesse ha fatto il resto, portando la SVB al crollo rovinoso, al blocco dei suoi capitali, alla sospensione dei suoi titoli azionari e alla mancanza di qualunque garanzia di recupero dei crediti e dei depositi per quel 97% di clienti che vi aveva lasciato in custodia oltre 250.000 dollari.

Siccome la particolarità della banca in questione era proprio quella di essere la preferita da tutto un parterre di imprese dedite all’ideazione di sempre nuovi software e hardware, di tecnologie all’avanguardia sul mercato delle telecomunicazione, dei dispositivi web e di tutto ciò che vi è interconnesso, il clamore del fallimento è risuonato come un campanello d’allarme.

Il timore che si è presentato davanti ai correntisti, quindi ad una buona parte dell’enormità economico-affaristica rappresentata dalle aziende della vallata più famosa del moderno capitalismo americano, è stato quello di un effetto a cascata: dalla banca alle loro imprese fino a toccare gli angoli più remoti di una diffusione merceologica che avrebbe risentito nell’immediatezza di una crisi verticale di questo tipo.

La concorrenza, del resto, è una spietatissima legge del capitale e del liberismo moderno, e non perdona niente e nessuno. Più di tutto, però, ancora una volta, ciò che colpisce è la grandissima fragilità del sistema che sembra onnipotente finché non incontra, tra le contraddizioni che si trascina appresso da sempre, quelle meno gestibili e improvvise.

Tra queste, appunto, le congiunture sfavorevoli tra le politiche internazionali degli Stati, le decisioni delle banche centrali in merito alle crisi attuali (prima fra tutte la guerra in Ucraina) e, non certo ultime, le capacità espansive del mercato nel bel mezzo di una emergenza che mostra tutta la sua imprevedibilità nonostante sia evidente il giganteggiare asiatico, l’impreparazione europea, la riemersione della Russia nello scenario globale.

Se l’aumento dei tassi di interesse e una serie di investimenti poco oculati possono mandare in crisi un intero settore industriale, economico e produttivo, all’avanguardia nel mondo e determinante per tanti altri settori di sviluppo globale, è lampante come siano molto poco fondate le certezze di chi ogni giorno è pronto a proclamare l’imperiturità del sistema capitalistico, del suo volto liberista, della sua capacità uniformante al modello americano che oggi viene messa in discussione dal confronto trilaterale con Cina e Russia.

Ne sa qualcosa l’Africa che, prima dagli europei e dalla Repubblica stellata, poi da Pechino e Mosca, è sempre un terreno di conquista e di riconquista per espandere nuovi insediamenti produttivi, accaparrarsi il favore di fette di mercato che corrispondono a biechi regimi di sfruttamento schiavistico in Stati dove mancano le minime garanzie umane e civili per larga parte della popolazione.

Russia, Cina e USA fomentano cambiamenti che sono alla base di una ridefinizione dei rapporti interni a paesi dove le guerre civili si protraggono senza la possibilità di vedere una fine anche sull’orizzonte lontano dei prossimi anni. E’ il caso della Somalia e del Somaliland: la guerra civile tra governativi e separatisti è mista ad una serie di confronti e scontri tribali, intrisi di una religiosità che mistifica le vere ragioni di una divisione che l’ONU è incapace di gestire con una missione di interposizione.

Il controllo della regione del Corno d’Africa è, da sempre, uno degli obiettivi più prelibati per chi intende sovraintendere al condizionamento dei rapporti marittimi (ed anche terrestri) nella zona: dall’Egitto (e da Israele) fino alle coste dello Yemen, il passaggio è regolato sì da convenzioni internazionali (e certo non da oggi), ma è anche zona di mare infestata da predoni, moderni pirati e flottiglie che passano da una bandiera all’altra per puro mercenariato.

Il capitalismo di Stato emergente cinese, che ha da tempo messo gli occhi su queste aree di crisi endemiche, oggi vede la concorrenza della Russia che penetra con le sue milizie e con i suoi capitali negli Stati più occidentali di un’Africa subsahariana dove le tratte dei migranti sono uno dei fenomeni di risulta di tutti questi sconvolgimenti imperialisti, quindi economici e quindi anche politici e civili.

La fragilità del capitalismo finanziario, mostrata dal crac di una banca modesta per dimensioni, eppure così importante per creditori e investitori, viene bilanciata dalla meno insicura stabilità politica che, dall’Ucraina (ergo dal quasi-centro dell’Europa) alle regioni africane, arrivando fino alla grande crisi di Taiwan, passa per il cuore dei tre imperi mondiali e li attraversa fin dentro i più reconditi, contraddittori sentimenti ed interessi locali e intercontinentali.

La reazione della Federal Reserve sul rialzo dei tassi di interesse è molto simile a quella della Banca Centrale Europea: si potrebbe trovare, come denominatore comune, la crisi multistrato che attanaglia piccoli, medi e grandi paesi. In realtà, il gioco cinico dei poteri economici e politici è molto più sottile e trova la sua ragione d’essere nell’avvicendamento inevitabile tra le potenze in gara per il dominio globale. O, quanto meno, per una influenza importante sulla grande parte del pianeta.

La guerra tra la NATO e la Russia sul terreno ucraino, e sulla pelle di quel popolo, è, parimenti al guardingo fronteggiarsi quotidiano tra USA e Cina sull’eredità nazionalista di Chiang Kai-shek (e sull’egemonia nell’intero bacino dell’Oceano Pacifico) la più lapalissina delle evidenze di una crisi mondiale che si riverbera, ormai senza soluzione di continuità, da almeno tre decenni a questa parte e che oggi, nonostante la pandemia trascorsa, il gigante pechinese è intenzionato a vincere anche sul lungo periodo.

La terza rielezione di Xi Jinping alla guida della Repubblica popolare, del Partito comunista e degli apparati militari del grande impero cinese va nel precissimo segno di un consolidamento di una potenza che, solo nominalmente socialista, intende essere il nuovo motore di sviluppo globale, la nuova frontiera cui guardare.

In questo scenario di grande instabilità economica e di esponenziale aumento del disagio sociale di interi paesi, la lotta per la gestione di questo sviluppo altamente ineguale è completamente aperta: le falle nel capitalismo finaziario americano sono evidentissime, ormai, si può ben dire, dal 2008, quando scoppiarono bolle speculative, andarono in crisi i subprime e tremarono le borse non solo a stelle e strisce.

Al centro di tutto sta quel valore per antonomasia nel capitalismo che è il denaro. La sua mediazione, reale o virtuale che sua, bancaria o internettiana o internettiano-bancaria allo stesso tempo, risulta sempre necessaria e, contestualmente, anche esiziale perché determina il confronto fra le valute, i tassi di cambio e di scambio, una continua irregolarità nella gestione stessa dei grandissimi profitti.

Nei “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, Marx scrive: «Il denaro, possedendo la qualità di comprare tutto, possedendo la qualità di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua qualità è l’onnipotenza del suo essere; esso vale quindi come essere onnipotente». Questa essenza sembra proprio l’ultima ad essere messa in discussione dal capitale, non fosse altro perché vi si sorregge in tutta la sua fragilità e contraddittorietà manifesta.

Ma, se si vuole aprire nuovi fronti di crisi in questa gigantesca costruzione di cartapesta, occorre non fare prima di tutto affidamento sulla ciclicità delle crisi del liberismo, ma sulla creazione di una alternativa concreta dal basso, su un cambiamento sociale che sia anzitutto culturale e civile e che abbia ben chiare tutti gli orrori che il sistema delle merci e dei profitti scaravanta addosso ai popoli.

Il crac di una delle più famose banche delle “start up” moderne non è l’inizio di una nuova crisi globale del capitalismo, ma è almeno la riproposizione di una oggettività che stentiamo un po’ tutti a vedere: non esiste alcuna certezza di stabilità per un sistema che va incontro ad un sempre maggiore divario tra ricchi e poveri, tra enorme concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi ed enorme diffusione della miseria in miliardi e miliardi di salariati e di inoccupati.

Nessuno dei tre imperi può dirsi al sicuro da questa contraddizione strutturale del capitalismo che è, e rimane, la migliore alleata di un mutamento necessario, di un capovolgimento di una società da realizzarsi in tempi non estremamente dilatati: pena il peggioramento delle condizioni di sopravvivenza della stragrande maggioranza della popolazione umana e animale sul pianeta.

Il crollo di una banca può essere utile a rimescolare le carte. Soprattutto a partire dalle nostre intorpidite coscienze critiche.

MARCO SFERINI

11 marzo 2023

foto: screenshot

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