Prendiamo per esempio un bel cespuglio di rose. Siamo seduti su una comoda panchina, su un promontorio che dista qualche chilometro dal mare che, tuttavia, nonostante la distanza, si può vedere distintamente, tanto da scorgere persino chi è in spiaggia a fare i bagni di sole e i tuffi.
Le rose troneggiano lì in tutta la loro conturbante bellezza. Paiono così fragili, facili prede del vento che le può spezzare o delle mani di un passante che le può cogliere. Ma, tuttavia, abbiamo la fortuna di poterle ammirare e quindi sappiamo cosa sono, che odore hanno anche se non le andiamo ad annusare, perché stanno lì e via dicendo.
Al termine del suo capolavoro “Il nome della rosa“, Umberto Eco pone una locuzione latina: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus». Tradotto significa: «La primigenia rosa esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi».
Il che vuol dire che l’essenza delle cose anche materiali, per quanto presenti nella loro fisicità davanti a noi, ci sfugge per singolarità interpretativa nostra, perché, in fondo, siamo noi a dare un nome alle cose, a noi medesimi, e quindi a classificarci e a stabilire delle convenzioni al fine di una comprensione generale finalizzata a dare un significato (ed un senso più complessivo) a tutto ciò che siamo e di cui siamo parte.
Il problema, lo si sarà compreso, è gnoseologico, appartiene dunque alla sfera della conoscenza e della capacità che abbiamo di rapportarci mediante i sensi con la realtà naturale, mediante una sorta di ontologia derivante dal tatto, dal gusto, dall’olfatto, dalla vista, dall’udito.
I filosofi tanto dell’antichità quanto dei secoli più vicini alla nostra modernità si sono posti, con più o meno giuste dosi di dubbio e di critica, il tema della distinzione tra senso e ragione (Aristotele), di una sorta di approccio meccanicistico per cui è, atomisticamente, la realtà a venirci quasi incontro (Democrito), di una sorta di aprioristica conoscenza che sarebbe insita nella materia stessa su un piano universalitistico e oggettivo (averroisti) o di una innata capacità di catalogazione del creato da parte umana proprio perché l’intelligenza sarebbe frutto del divino (Agostino).
Ognuno di noi può avvicinarsi o allontanarsi, a seconda delle proprie convinzioni, da queste interpretazioni filosofiche, a tratti scientifiche (come nel caso dell’intuizione davvero straordinaria di Democrito sugli atomi come composti elementari della materia), ma il punto in discussione rimane sempre molto affascinante, proprio perché non trova, nemmeno nell’indagine più attuale, una risoluzione definitiva.
Si potrebbe dire che, come esistono bibliografie delle bibliografie, può esistere anche una gnoseologia della gnoseologia stessa. Ma, seguitando così, finiremmo col cortocircuitare un filo logico – storico del ragionamento che vogliamo invece sviluppare partendo da colui che non abbiamo ancora citato e che è una sorta di convitato di pietra quando si parla di conoscenza e di studio della medesima: Tommaso d’Acquino.
La gnoseologia tomistica, infatti, è una sorta di pietra miliare che aggiunge e non toglie nulla alle critiche precedenti, fornendo ulteriori spunti nei secoli medievali per una compenetrazione sempre maggiore tra i presupposti platonici ed aristotelici e quello che sarà il pensiero cristiano che prenderà campo nella vecchia Europa.
Sostiene Tommaso: «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu». Non c’è bisogno del vocabolario di latino-italiano per comprendere questa facile frase che, tuttavia, è una pietra angolare della filosofia del ‘200 e dei secoli posteriori. Nulla arriva quindi alla mente, diciamo pure alla nostra capacità intellettiva se non mediante i sensi.
Un “intelligo” che è declinabile più nella sua funzione di comprensione oggettiva e non di credenza trascendentale agostiniana – «Credo ut intelligam, intelligo ut credam» – e che pertanto nega con decisione l’esistenza di qualunque forma di conoscenza affidata all’intuizione, sia pure originata da una spiritualità che si vorrebbe (pure da parte tomistica) insita nell’essere umano in quando diretta emanazione di Dio, parte centrale della Creazione (quella con la ci maiuscola).
Le moderne scienze antropologiche e zoologiche avrebbero indubbiamente, a ragione, da obiettare molto tanto ad Agostino quanto a Tommaso, ma mille anni fa, adoperando esattamente gli strumenti conoscitivi dell’epoca e, quindi, potendo arrivare materialmente ad un certo punto dell’indagine gnoseologica nel suo complesso, sussiste comunque la percezione – del tutto speculativa, quindi, se vogliamo, affidata all’intuizione e al rapporto introspettivo di ognuno, non a quello esteriore e materiale – che i sensi sono il principale viatico della conoscenza.
Ma si può esaurire il nostro rapporto di acquisizione del sapere e, quindi, di vivibilità della vita stessa sic stantibus rebus, soltanto nell’approccio materiale, fisico, sensoriale? La risposta è, quasi universalmente accettata e condivisa, negativa. Supportata anche qui, però, dall’esperienza, da un empirismo che connota qualcosa che sfugge al tatto, all’udito, alla vista, al gusto, all’olfatto.
La trascendenza del pensiero è il vero elemento di indagine in un ampio spettro della gnoseologia tanto antica quanto moderna. La mente umana è certamente costituita dal cervello, che è qualcosa di tangibile, di studiabile anatomicamente, ma che, ammettono gli scienziati è un grande mistero in quel novanta per cento di capacità che non utilizziamo.
Pare infatti che, durante la nostra esistenza noi si utilizzi soltanto un dieci per cento delle potenzialità di questo organo straordinariamente evoluto e così mortificato dalle azioni disumane nel corso della Storia. Agostino, se ne avesse avuto la possibilità, probabilmente avrebbe fatto riferimento quasi esclusivamente ad un “mistero divino“, a qualcosa ovviamente di elevato rispetto alla mera indagine materiale.
Per chi, invece, come Tommaso, era più aderente alla gnoseologia aristotelica, le proprietà intellettive umane potevano anche essere una “potenza dell’anima” (intesa ovviamente in senso cristiano) ma, anzitutto, erano una caratteristica comunque di un organo sensoriale, di un sistema nervoso complesso e articolato che, per quanto indagato a fondo, non è penetrabile al punto da risolvere tutti i nostri dubbi e le sorprese sul comportamento tanto psicologico quanto psico-fisico dell’essere umano (e ovviamente degli altri esseri viventi).
Quell’intelletto che Tommaso ritiene essere un prodotto potente dell’anima, dell’intrinsecità umana, in che modo agisce su noi stessi? Ovvero: come prende corpo, si avvia e si sviluppa il processo conoscitivo? È volontario, indotto, agito o subito? È quindi una “potenza dell’anima” che dobbiamo pensare in quanto attiva o passiva?
Prendiamo il cespuglio di rose di cui all’inizio di queste righe: nel momento in cui noi le conosciamo, quindi – se proviamo a citare qualche ottimo vecchio dizionario etimologico – allorché viviamo l’apprendimento, mediante la ragione, di quello che consideriamo univocamente il vero e l’oggettivo delle cose (l’uno in pratica sinonimo dell’altro), ci rendiamo conto di capire mediante i sensi e di fare, al tempo stesso, opera di astrazione concettuale.
La rosa è solo un nome nudo in quanto concetto di sé stessa, in quando – platonicamente parlando – “idea della rosa” che abita in noi mediante il nome associato all’immagine. Se chiudiamo gli occhi e proviamo a pensare alla rosa, ci rendiamo perfettamente conto che noi possiamo “vederla” pur tralasciandone il sostantivo che le abbiamo attribuito per definirla convenzionalmente nell’umanità.
Quindi, se ne potrebbe dedurre che realtà e concettualità del reale sono distinguibili e che nulla impedirebbe domani, o anche oggi, di stabilire regole nuove universalmente riconosciute per chiamare, ad esempio, la “rosa” in altro modo, ad esempio “margherita“, con il nome di un altro fiore. Ma sarebbe un dramma, una sofferenza inutile per la nostra capacità di adattamento e per l’abitudinarietà (innata) che ci pervade.
Ci eravamo chiesti se la potenza dell’anima rappresentata dall’intelletto è tomisticamente reputabile come forza attiva o passiva nell’individuo. Tommaso risponde che questa capacità di acquisizione delle nozioni esterne, elaborate poi internamente mediante i sensi, è certamente un’operazione passiva, perché ha la necessità di passare attraverso l’elaborazione sensoriale.
Un intelletto dunque dipendente dalla tattilità, dall’udito, dall’olfatto, dal gusto e dalla vista? Indubbiamente, perché il contatto nostro col mondo avviene attraverso i sensi. Tuttavia, anche chi ha meno capacità in questo frangente, come le persone disabili, i non vedenti o i non udenti, può mantenere un tipo di relazione con ciò che lo circonda.
Alla diminuzione anche drastica delle capacità sensoriali non corrisponde un azzeramento dell’esperienza di vita. Il pensiero continua ad agire nella mente umana ed animale, con tutte le dovute differenze rispetto all’evoluzione dei diversi cerebri, ma esiste e produce emozioni, azioni, relazioni.
Tommaso specifica: l’intelletto non è al servizio dei sensi. Più che altro lo ritiene una “tabula rasa” priva di materialità, propriamente psichica, dove per psiche ha da intendersi il concetto esclusivo di “soffio“, di “anima” immessa da Dio nell’essere vivente. Su questa tabula rasa i sensi orientano e imprimono, come sulla tavoletta di uno scriba, le “species” degli oggetti, delle cose e delle persone, delle situazioni che incontriamo ogni giorno.
Nonostante questa spiegazione possa sembrare esaustiva e, dunque, chiudere il cerchio della gnoseologia tomistica, è lo stesso Tommaso a ritenere che il processo di percezione, acquisizione e successiva elaborazione della conoscenza non sia esauribile entro questi che per lui sono comunque dei limiti sia soggettivi sia oggettivi.
Di per sé, ciò che esiste prescinde dalla nostra capacità sensoriale e dalla nostra stessa presenza nel mondo. Senza scendere su un piano teleologico, relativo quindi alla finalizzazione dell’essere all’esserci di Dio e quindi entrando in un settore prettamente creazionista, pare fin troppo umano il porsi altre domande in merito all’armonia naturale nei confronti della quale è evidente la nostra meraviglia.
Per la perfezione geometrica, per il rapporto di causa ed effetto che sussiste in ogni “atomo” della materia, avrebbe detto Democrito. La titubanza e il disagio umano sono anch’essi naturali, perché il processo conoscitivo non è astraibile dal contesto in cui avviene, visto che noi per primi ne facciamo parte. Siamo quindi obbligati ad una indagine dell’esistente entro l’esistente stesso.
Quanto, quindi, possa essere “libera” questa tecnica gnoseologica autocosciente dei propri limiti è molto difficile da definire. Anzi, è probabilmente impossibile. Si tratta di una sorta di oggettività del rapporto tra particolare e universale, per cui al di fuori del secondo il primo non ha praticamente nessun senso e significato e, anzi, perde perfino la sua identità uguale e contraria al contesto in cui esiste e sussiste.
Socrate affermava che la conoscenza, il sapere deve avere una qualche utilità per l’essere umano e che, quindi, non può essere fine a sé stesso, vanagloriosamente incasellabile nella maggiore o minore capacità di accaparramento delle nozioni e basta. Non si tratta di un sapere che sia utile qui ed ora soltanto nell’ambito della polis, della vita pubblica, della società in senso anche lato del termine.
L’utilità di cui parla è finalizzata all’essere umano ragionevole, alla capacità di trasfondere l’intelligere nelle attività umane, dalle più modeste a quelle più importanti che riguardano la vita di tutte e tutti. In questo aspetto di collettivizzazione della conoscenza sta un utilitarismo gnoseologico, un intendimento del sapere come leva per il miglioramento delle condizioni di tutti gli esseri viventi.
Tutto ciò prescinde dagli dei olimpici o, ovviamente, dal successivo dio dei cristiani. C’è qualcosa di simile anche in Tommaso, sebbene la polemica con gli averroisti disveli in particolare l’opposizione del Nostro alla teorizzazione di una capacità intellettiva universale, unica per tutti gli umani. Quell'”intelletto agente” che potrebbe essere seraparabile dall’uomo finirebbe con l’essere incomprensibile per l’uomo stesso, in quanto non parte di lui, alieno e altro dal suo contesto naturale.
Non c’è, dunque, per Tommaso, capacità di intelligere senza presenza dell’intelletto nell’essere umano stesso; con la particolarità – e qui la polemica con gli averroisti si scatena in tutto il suo fervore dialettico – che ciascuno rende la propria capacità intellettiva particolare, singolare e irripetibile. Perché, tanto nella percezione sensioriale e materiale, quanto in quella astratta, giocano un ruolo le situazioni in cui l’individuo si trova.
Il quadro della filosofia aristotelica qui diventa sempre più chiaro come cornice della gnoseologia tomistica. L’universalismo dei concetti è, chiaramente per lui, qualcosa che attiene alla sfera del divino (ante rem), successivamente nelle particolarità dell’esistente (in rem) e, attraverso la sensorialità e la ragione poi anche i noi (post rem).
Decontestualizzata dal contesto creazionista dei padri della Chiesa, la domanda che rimane è ovviamente sull’esistenza dell’esistente, dell’Universo, su cui si possono fare innumerevoli ipotesi del tutto astratte e concettuali. Ma la conoscenza, comunque, che è affidata alla capacità umana di autoconsapevolezza e di coscienza di sé stessi e del resto da noi, rimane insita nella concreta essenza che ci caratterizza.
Sta in noi e, in forme differenti, negli esseri viventi che noi non siamo e che provano emozioni, dolori, gioie, stress, rilassamento similmente all’animale umano che siamo. Per dirla con Tommaso, alla fine la conoscenza di ciò che è sensibile e oggettivamente riscontrabile dai sensi è il conoscibile che sta nel conoscente in relazione alla natura dello stesso conoscente.
Latineggiando, suona così: «Cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis».
MARCO SFERINI
30 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria