Noi ciondoliamo tra le geremiadi incessanti di tutte le televisioni, dove i conduttori, anche quelli meno berlusconiani di sempre, si mostrano pietosamente vicini tanto al funerale quanto al lutto di Stato, mentre il mondo vorticosamente gira con i suoi processi epocali, con i suoi drammi globali.
Mentre salutiamo la dipartita di un uomo che ha reso l’Italia un posto peggiore di quello che prima della sua scesa in campo era (e non era già allora il migliore dei paesi possibili, nonostante la sua Costituzione), muoiono nel Mediterraneo, avanti alle coste del Peloponneso centinaia di migranti che da Tobruk cercavano, per vie traverse, per rotte contorte e imposte dai pericoli tanto del mare quanto dalle motovedette con l’incarico di sorvegliarli e ricondurli indietro, nei lager libici, di raggiungere le coste italiane.
Il solito aereo di Frontex, l’unico occhio che l’Europa mette, mentre è ancora sorda sia d’orecchio, sia politicamente, socialmente e, quindi, umanamente, aveva avvistato un barcone con un numero di migranti che varia, nelle stime che si sono potute avere dai superstiti approdati in Grecia: dai quattrocento ai settecentocinquanta.
Ed è probabile che il numero includa molte donne, tanti bambini. Settantanove sono già stati ritrovati cadaveri, trascinati dal bagnasciuga delle spiagge non in salvo, ma al sicuro dal risucchio marino. Un centinaio sono invece sbarcati fortunosamente, in stato di shock, ma almeno sono vivi.
Delle altre centinaia non si sa praticamente nulla e si aspetta che il mare, con quella pietas che è stata evocata in questi giorni per il funerale solenne di un uomo che ha, dall’alto istituzionale e dal basso morale ed umano dei suoi governi, fatto tutto il possibile con i suoi alleati di destra estrema per respingere i fenomeni migratori, per rendere la vita impossibile agli sbarcati sulle nostre coste (la Legge “Bossi-Fini” è lì a testimoniarlo, anche ad onta incancellabile di un centrosinistra che non l’ha mai veramente superata).
L’attenzione dell’opinione pubblica è stata veicolata per giorni, e lo sarà ancora per altrettanti altri, su un evento che ha come sospeso ogni altro accadimento in un limbo obliante, rendendoci complici di una disattenzione malevola, anche se indotta, se suggerita, se ostentatamente perseguita da un regime della disinformazione capace di coralizzarsi e parlare all’unisono facendo scolorire ogni altro evento, rendendo residuale il resto del mondo.
Così, mentre noi si celebrava e si celebrerà un padrone divenuto Presidente del Consiglio non volontà di dio ma per volontà di una nazione, senza che almeno in questo caso Berlusconi ne abbia direttamente una qualche responsabilità, visto che siamo capaci di incensamenti che vanno ben oltre l’immaginazione degli incensati che non possono assistere alle esequie di Stato, l’Europa, nonostante gli accordi ultimamente presi quasi all’unanimità dai Ventisette, si voltava ancora dall’altra parte, per non affrontare umanamente prima di tutto e quindi anche politicamente, il problema delle grandi migrazioni di questi decenni, di questa strettissima attualità.
Secondo alcuni rapporti internazionali, la grave crisi climatica ed ambientale in cui ormai siamo immersi, provocherebbe ogni anno lo spostamento obbligato e forzato di quaranta milioni di bambini, di ragazze e ragazzi che non hanno accesso alle risorse fondamentali per vivere.
Nell’Africa subsahariana la popolazione che è priva del diritto all’acqua potabile varia dal 20 al 60%. Questo significa che ben oltre la metà della gente che vive in Ciad, Niger, Repubblica centrafricana, Etiopia, Somalia, Nigeria, Togo, Benin, Congo, Repubblica democratica del Congo, Tanzania, eccetera, eccetera, sarà costretta a spostarsi se non vuole morire di sete (e di fame…). Parimenti, il controllo delle multinazionali sull’acqua dolce è così totale da portare il cosiddetto livello dello “stress idrico” a livelli uguali e contrari a quelli della grande sete appena citata.
Negli stessi paesi in cui l’acqua manca per sei decimi della popolazione, il riempimento dei bacini delle riserve rinnovabili è sempre più difficile. Sistemi di coltivazione intensiva e utilizzi privati dell’oro blu a fini prettamente aziendali, lasciano a secco intere città e, ovviamente, le campagne coltivate dai piccoli agricoltori.
Fame e sete, dunque, sono il primo problema di un continente che, ne consegue, deve affrontare un’altra enorme tragedia: la privatizzazione di quel po’ di sanità che noi occidentali abbiamo concesso agli Stati africani dietro ricatti e vendite di medicine, macchinari e attrezzature a costi esorbitanti, facendo aumentare il loro debito, costringendoli ad una impossibile pubblicizzazione di qualunque sistema di tutela della salute.
Ma il problema dell’approvvigionamento idrico non riguarda soltanto l’immenso dramma africano, da dove arriva infatti la maggior parte della popolazione migrante. Movimenti sociali per la rivendicazione del diritto all’acqua come bene comune hanno preso corpo anche in Medio Oriente e nelle zone più depresse e vessate dell’Asia: dall’Afghanistan dei talebani al Pakistan, dal centro-nord della penisola indiana al Centroamerica.
Le popolazioni autoctone e indigene vivono, per fortuna, questo problema come qualcosa che riguarda l’intera umanità e lo astraggono dal semplice contesto locale, pur lottando contro i loro governi e contro le multinazionali che depredano tutto (aria, acqua, boschi, foreste, terreno, sottosuolo…) e contribuiscono ad una sorta di tensione internazionale della lotta, così da mantenere una attenzione globale su una serie di problemi sociali che si legano inevitabilmente a quelli di un eco-sistema sconvolto dal capitalismo.
I flussi migratori cui assistiamo ogni giorno sono il prodotto di una depredazione liberista che non ha eguali nella storia del moderno modo di produzione dei profitti, delle merci e dello sfruttamento della forza-lavoro.
La risposta della disperazione è quella di chi sale su un peschereccio, su un barcone sapendo che è strapieno, ricolmo di storie di torture, di vessazioni, di botte, di stupri, di tanta fame e tanta sete. Sapendo che è ricolmo oltre l’inverosimile di corpi che portano con loro tutto il peso materiale e morale di un sistema economico che ha fallito. Da sempre.
Ergo, mentre noi celebriamo la dipartita di un ex capo del governo, che è stato parte funzionalissima di questo sistema, battendoci il petto per la troppa poca considerazione umana dei morti, a metà tra il rendergli giustizia e l’accanirsi ancora contro per le vicende giudiziarie, per i debordanti strafalcioni antisociali e politici, per il capovolgimento dei valori della Repubblica senza alcun ritegno o vergogna, il mondo gira e centrifugamente spinge al di fuori di sé tutto ciò che lo soffoca, che lo danneggia, che lo reprime nella sua naturale evoluzione.
I disastri ambientali che si registrano da nord a sud, da est ad ovest e che, con tragico paradosso, riguardano eventi dove proprio l’acqua è protagonista, dove invade intere città, regioni, paesi devastandoli e atterrando comunità ed economie, sono l’altra faccia di una insostenibilità sociale e (in)naturale che non può avere soluzione se non con l’abbandono progressivo, ma anche piuttosto repentino, delle politiche che sino ad oggi sono state fatte nel nome del compromesso tra capitale e ambiente, tra privato e pubblico.
Di contro, la siccità che descrive la povertà dei corsi d’acqua, diventa lo specchio della sete che ci toccherà sempre più frequentemente, di un aumento dei costi delle risorse, di una vera espropriazione di un bene naturalissimo, comune e patrimonio prima di tutto del pianeta e poi di tutte e tutti noi. Avendo sempre bene a mente che, di tutta l’acqua presente sulla Terra, soltanto il 2,5% è potabile, quindi “dolce“.
Se si confrontano un po’ le cifre, gli scenari che si verificano in ogni parte del globo e le ricadute antisociali che ne derivano, non è difficile comprendere perché milioni di esseri viventi umani (perché, pure se facciamo finta di non saperlo, anche gli esseri viventi animali soffrono sete e fame…) sono costretti a spostarsi da paese a paese, da regione a regione, da continente a continente.
Non è soltanto più una questione di guerre tra etnie, che pure provocano massacri indicibili, carneficine spaventose, veri e propri genocidi su cui cala un velo di dimenticanza pressoché unanime, visto che ci si abitua ad un mondo capitalistico in cui si dà per scontato che i conflitti ci siano (“ci sono sempre stati“, lo straordinario alibi che ci serve da autoassoluzione come specie umana…), ma è anzitutto una questione ambientale e quindi a cui non si può letteralmente sfuggire, perché di quell’ambiente si fa parte.
L’Europa può anche voltare le spalle alla drammaticità del problema, cercare delle soluzioni di comodo per rassicurare i mercati e cercare di stabilizzare i suoi rapporti interni così travagliati, ma alla lunga, visto che si ritiene – e con oggettiva considerazione – uno dei capisaldi dell’occidente nel mondo (insieme agli Stati Uniti d’America), non potrà non subire tutta la pressione che i popoli affamati, assetati e stretti nella morsa della sopravvivenza senza scampo, faranno alle sue frontiere.
L’Italia oggi si vanta di avere un governo efficiente, all’altezza delle sfide di una modernità che è mortifera, omicida, repressiva, escludente, razzista, omofoba, liberista all’ennesima potenza.
Inseguendo la prospettiva della rassicurazione dei mercati, progettando il massimo delle privatizzazioni possibili, compresa quella dell’acqua, andremo soltanto incontro a nuovi disastri. Così pure sovvenzionando la guardia costiera libica, facendo accordi con la Tunisia e con altri paesi africani perché si prodighino nel riportare a casa i migranti, nel tenerli in quei campi di concentramento aggiornati ad un millennio che appare più orribile del precedente.
Bisogni primari e grande economia non sono scindibili, ma sono sempre più contrapposti. Bisogna scegliere da che parte stare: con chi ha fame e sete, anche di giustizia (un po’ evangelicamente parlando…), oppure con chi ha cumulato sette miliardi di beni mobili e immobili grazie alla corruzione, alla trasformazione in chiave egoistica di una comunità nazionale che prima, quanto meno, un po’ sapeva ragionare in termini solidali?
La scelta è nelle nostre mani. Anzi, nelle nostre (in)coscienze.
MARCO SFERINI
15 giugno 2023
Foto di Josh Sorenson