Che cos’è la meschinità delle parole?
E’ prima di tutto un doppiofondo immorale, una consapevole e ricercata volontà di scombinare le carte, di arruffare i pensieri, di creare quella confusione utile a sparigliare le opinioni, ad insinuare il dubbio più improbabile ed impossibile che si possa immaginare soprattutto in un ambito sociale, culturale, politico, filosofico e di qualunque altra natura in cui, nel corso del tempo, si sia data una qualche certezza assodata, un elemento di convincimento generale che non sia soltanto affidato all’interpretazione ma, bensì, fondi sé stesso su una solida concretezza. Sui fatti, insomma.
La meschinità delle parole pretende invece di farsi avanti con tutta la spudoratezza di chi è stato legittimato ad un ruolo dal voto popolare e, quindi, democraticamente parla per mandato, per rappresentanza ufficiale, per delega diretta di una sovranità che sta nella Costituzione, quella sì citata in principio, ora e sempre, anche se non si sa bene se in saecula saeculorum…
Piano piano, in questo modo, strafalcione antistorico dopo strafalcione revisionista, si presenta davanti all’opinione pubblica l’impresentabile, per essere finalmente accettato.
C’è chi la meschinità parolaia ha saputo adoperarla carsicamente, insinuandosi come il serpente tra la boscaglia e facendosi invisibile ma determinando notevoli mutamenti nel clima sociale e politico del Paese. E, poi, c’è chi l’ha invece usata come una clava preistorica, senza giocare di sponda, andando diritto e nudo alla meta: credere, del resto, obbedire e combattere non vuol mica dire, almeno per i postfascisti che fascisti sono rimasti fin dentro la più nera recondità del loro animo, scendere a compromessi con la loro storia.
I tentativi di colpi di Stato contro la democrazia e la Repubblica fatti nel corso degli anni ’50 e ’60 (ed anche oltre…), apparentemente sventati prima ancora di essere messi in pratica o fermati all’ultimo minuto da qualche telefonata d’oltreoceano, si sono sommati ad un lavoro di erosione anticulturale e anticivile che ha portato continuamente attacchi alla Costituzione.
Per non parlare delle inadempienze dei governi ed anche delle maggioranze parlamentari che hanno ritardato la sua applicazione per lunghi decenenni, impendendo in questo modo che l’equilibrio armonico delle differnti istanze istituzionali si potesse realizzare, garantendo così ai cittadini un migliore funzionamento dello Stato e una più consona applicazione di tutte le sue funzioni.
Durante tutta la storia della cosiddetta “prima repubblica“, quindi dal 1946 al 1989, per oltre mezzo secolo coloro che hanno combattuto, a vari livelli, il progressismo socialista e comunista e la sinistra come elemento propriamente costituente della nuova società italiana e del nuovo consesso civile e morale dell’intero Paese, si sono saldati con modi e tempi anche diversi fra loro ma, spesso, hanno trovato delle convergenze nel tentare di ostacolare una modernità dei diritti sia del mondo del lavoro sia sul piano civile ed umano.
La frapposizione innescata più volte innanzi alle lotte operaie e studentesche, a quelle delle donne e delle persone che oggi possiamo accomunare nella sigla LGBTQIA+, è stata frutto di una intersezione malevola di interessi che riguardavano anche la natura economica di certe forze politiche e il loro peso istituzionale conseguente ma, prima di tutto, ha riguardato la sovrastruttura ideologica, l’umanamente necessario ambito di crescita culturale in cui, chi più chi meno, vive anche prescindendo dalla consapevolezza di esservi e di nutrirseve.
Dunque, i piani di stabilizzazione dei privilegi delle classi dominati, del padronato italico, si sono saldati con gli interessi politici di pentapartiti, di classi dirigenti che, prescindendo per un attimo dalle posizioni che esprimevano dai banchi di maggioranza in Parlamento e dal tavolo rotondo di Palazzo Chigi, e a fare da contorno a tutto questo piano reazionario.
Un piano rivolto sempre e comunque contro i tentativi della classe lavoratrice di emanciparsi e di sovvertire l’ordine economico strutturale, si sono poste le formazioni destabilizzatrici della democrazia: quei neofascisti missini che hanno richiamato a sé piazza piene di nostalgici del regime e anche di monarchici incalliti.
Nel torbido delle mescolanze nere, sotto lo stellone poco italico e molto sabaudo, stretti stretti gli uni agli altri, piduisti pseudo-massoni hanno tramato con alte cariche dello Stato, con servizi deviati, con il militarismo d’oltreoceano anzitutto per evitare che il governo d’Italia finisse nelle mani del PCI e della sinistra in generale.
Per supportare l’insostenibile pesantezza del rigurgito autoritario, dall’amaro sapore un po’ neofranchista e un po’ collonnelliscamente ellenico, hanno iniziato a diffondere una serie di controstorie che, per anticipare le mosse dell’avversario costituzionale, democratico, antifascista e magari pure di sinistra, si sono posizionate all’attacco mettendo sul banco degli imputati il silenzio sulle foibe giuliane e istriane, sui triangoli rossi emiliani, su quelli che sono stati meschinamente (per l’appunto) definiti “eccidi partigiani“.
Una certa stampa e una certa televisione degli ultimi trenta, quaranta anni ha assecondato, insieme ad una parte scriteriata della sinistra moderata, questa legittimità all’ascolto dell’altro, come se si trattassero di opinioni relative a fatti e non invece delle plateali operazioni revisionistiche della Storia (con la esse maiuscola) tese a dimostrare che la Resistenza era stata egemonizzata dai “rossi” e che, quindi, la parzialità era insita nei valori anche costituzionali.
Certo, ieri ed anche oggi i meschini delle parole si lambiccano il cervello per dimenarsi nei barocchisimi che mettono in piedi al fine di giustificare la critica a quelli che per loro non sono valori cercando di mantenersi formalmente aderenti ai princìpi costituzionali su cui hanno giurato da presidenti, ministri, sottosegretari, eccetera, eccetera. E’ il doppio fondo della meschinità che non si smentisce e che emerge con evidenza ogni volta che a questi soggetti si pone il quesito: «Ma perché non sei antifascista?». Sul fatto che non lo siano l’evidenza è manifesta. Per questo la domanda è legittima.
Ma la risposta non viene mai. Perché se fosse sincera, quella risposta dovrebbe essere più o meno così: «Non sono più fascista storicamente parlando, ma mi riconosco in quell’impostazione ideologica, culturale e politica e penso che la destra di oggi debba esserne la continuità fattuale, sia all’opposizione sia al governo. Per fare questo sono disposto ad accettare di giurare su una Costituzione in cui non mi riconosco pienamente e che vorrei cambiare facendo dell’Italia una repubblica presidenziale, con un uomo (o una donna) forti al governo, sveltendo le procedure parlamentari e mettendo al centro dell’agire politico l’esecutivo».
Si intende: il tutto condito con un bel richiamo al trittico “Dio, Patria, Famiglia“, in barba alla laicità dello Stato, riaffermando un connubio tra politica e fede che si fondi sui sacri valori occidentalissimi cristiani e giudaici.
Ed anche questi riferimenti sono una invenzione tutta moderna del sovranismo e dell’identitarismo esasperato di una conservazione che davvero non guarda alla Storia dell’Europa, ma all’Europa come storia di una civiltà che ha visto invece cattolicesimo ed ebraismo costantemente su piani distinti, con il primo a relegare nei ghetti il secondo e a perseguitarne i membri proprio ad iniziare dal Vecchio continente.
La meschinità delle parole, dunque, è più attuale che mai come metodo politico, come arma di distrazione di massa dalle contingenti problematiche economiche e sociali e, tuttavia, non si può non replicare quando si afferma che «…nella Costituzione non è presente l’antifascismo…». Si deve replicare e bisogna farlo uscendo dalle parole e passando ai fatti, come bene osservano intellettuali, politici e sindacalisti uniti in un appello uscito oggi su “il manifesto” in cui si chiede alle senatrici ed ai senatori di uscire dall’Aula ogni volta che i lavori siano gestiti dall’attuale Presidente.
E’ un Aventino moderno a cui si invita a fare ricorso memori del passato, senza ripeterne gli errori, ma valorizzando una forma di protesta che dia un segnale oggettivo, riscontrabile e ineludibile da parte di tutte e di tutti.
Il Parlamento della Repubblica non può essere rappresentato da chi ogni giorno provoca la maggioranza della popolazione italiana, offendendo la memoria della sua storia, di tante persone che hanno dato la vita perché la libertà conquistata permettesse anche a chi la disprezzava nel nome del militarismo, della sicurezza di Stato e della forza di un regime omicida e criminale, di potersi oggi esprimere meschinamente e sfacciatamente contro essa stessa.
Perché quella democrazia, quella libertà, quella Repubblica fossero tali proprio nel riconoscimento delle incongruenze che si possono generare con una condivisione (non con una concessione) di diritti e di doveri che il fascismo, e prima ancora il regime monarchico seppure molto differentemente, avevano negato all’Italia per tanti, troppi lunghi decenni.
La preziosità del lascito che le e i Costituenti ci hanno dato è un bene da custorire al costo di sembrare, anzi di essere, tremendamente intransigenti, senza fare alcuno sconto a chi pensa di potersi permettere tutto con una arroganza che gli è indelebile, perché fa parte del suo modo di vivere violentemente la politica come sopraffazione di una idea sulle altre e con un dettato etico che prevede il riconoscimento di una sola morale, a scapito di diritti sociali, civili e umani.
E’ vero: nella Costituzione non compare la parola “antifascismo“, ma nella XII disposizione finale, che è parte del tutto, che quindi contribuisce a dare alla Carta la sua fisionomia resistente e antifascista, come tutte le altre norme varate in successione nel nuovo diritto positivo italiano proclamato con la fine della guerra, della monarchia e del totalitarismo mussoliniano, è scritto senza possibilità di alcuna interpretazione:
«È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dalla entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.».
Questo per evidenziare, visto che pare ve ne sia bisogno, come la meschinità delle parole tenti di capovolgere l’oggettività. Di ciò che è scritto, di ciò che è detto, di tutto quello che il popolo italiano ha vissuto nel Ventennio e nel corso della Seconda guerra mondiale.
Chi si comporta così, è l’ultima domanda (per ora…), può essere la seconda carica dello Stato?
MARCO SFERINI
22 aprile 2023
foto: screenshot tv ed elaborazione propria