“Foreign Affairs“, un’autorità tra le riviste di politica internazionale, rivela che la guerra in Ucraina si sarebbe potuta risolvere nel giro di un mese; non fosse che gli Stati Uniti d’America, l’Unione Europea e l’allora primo ministro britannico Boris Johnson non avessero boicottato un principio di processo di pace. La descrizione dei probabili incontri tra le parti in guerra avrebbero dovuto avere come tema il riconoscimento di una ampia autonomia per il Donbass.
Sulla base di ciò, i russi si sarebbero ritirati dal territorio ucraino e la trattativa sarebbe proseguita tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelens’kyj riguardo il riconoscimento dei diritti dei russofoni nelle altre regioni meridionali, tralasciando la questione della Crimea ormai assodato il fatto che la sua annessione alla Federazione russa era precedente ai fatti bellici del febbraio 2022 (così come la guerra civile nel Donbass).
Ma qualcosa andò per il verso sbagliato o, se vogliamo essere più afferenti alla realtà, andò nel modo in cui Washington, NATO, compiacente l’Unione Europea, volesse che andasse. La guerra, quindi, è proseguita e ha, mese dopo mese, dato adito agli strateghi dell’alta finanza di progettare su un termine temporale più lungo una rimodulazione degli investimenti nei settori di maggiore interesse bellico, pensando ovviamente ad una radicalizzazione del conflitto ma, pure, ad una sua stagnazione su un fronte stabile e instabile contemporaneamente.
Le condizioni di difesa ucraine sono, così, oggi logorate al punto che Volodymyr Zelens’kyj richiede gli stessi tipi di armamenti di difesa aerea di Israele e reclama a gran voce decine, centinaia di miliardi di dollari di investimenti da parte degli alleati occidentali per sostenere non più la controffensiva, ma una disperata difesa contro i russi che sovrastano le truppe di Kiev in quanto a freschezza delle truppe, munizioni (si parla di una pallottola ucraina contro dieci russe) e, ovviamente, completo dominio dei cieli (se lo volessero attuare nel concreto).
Ma sempre e solo si parla di guerra. Nemmeno ora che la sconfitta appare sempre più vicina, soprattutto se a vincere le presidenziali americane sarà Donald Trump che, quindi, interromperà qualunque finanziamento e qualunque rifornimento di armi al governo di Kiev, si alza una voce, almeno dall’Unione Europea, per addivenire ad un compromesso, ad un tavolo di trattative che abbia, anzitutto, come obiettivo, quello di cessare il fuoco e di fermare la carneficina.
Chi teorizza la superiorità anche morale delle liberaldemocrazie, sostiene, spesso e volentieri, che nel combattere Stati non liberali e tanto meno democratici, i paesi virtuosi che ammettono il pluralismo avrebbero una sorta di vantaggio etico e che ciò influenzerebbe non solamente l’andamento dei conflitti ma anche i processi di pacificazione successivi. Questo deriverebbe da una sorta di “entusiasmo” quasi atavico, presente là dove c’è la consapevolezza di essere dalla parte giusta. Tutti gli altri sarebbero dispotismi.
E non c’è dubbio che lo siano; ma può accadere pure che le guerre, soprattutto quelle non dichiarate, contro altri Stati che non si uniformano ai regimi liberaldemocratici, diventino delle armi di distruzione di massa col passare dei lustri e costringano una società che poteva essere molto più armoniosa e felice rispetto a quelle capitalisticamente intese, a divenire una parte integrante di un terzomondismo francamente oggi largamente diffuso e non soltanto più individuabile nel continente africano.
La guerra in Ucraina dimostra che l’influenza cultural-politica delle idee liberali nei confronti delle democrazie occidentali non è una garanzia di vedere applicata una politica estera che rispetti i diritti delle altre nazioni, degli altri popoli. Liberalismo interno ed imperialismo esterno possono oggettivamente convivere senza che si aprano delle contraddizioni voraginose nell’ambito di un interclassismo che finisce col distrarsi dai bisogni da “ceto medio” e segue le filiere delle propagande nazionalistiche.
La domanda che l’articolo del “Foreign Affairs” induce a farsi è questa: perché, se c’era una possibilità di pacificare un conflitto che, già dalle prime ore, dimostrava tutto il portato distruttivo e il condizionamento continentale e mondiale che avrebbe avuto, i maestri di etica liberaldemocratica dell’Occidente non hanno unito il dire e il fare e non si sono adoperati per far finire la guerra?
La risposta più diretta, ma tutt’altro che semplice, che si può dare è sempre e soltanto in chiave di geopolitica internazionale: una guerra come quella a metà tra Europa e Russia, quindi tra uno degli “Orienti” (come giustamente li definisce il professor Cardini in alcune sue opere al riguardo) e l’Occidente nordatlantico, era l’utilità tempestiva per rimettere in moto una economia in crisi di fronte al giganteggiare dei poli asiatici e di una Russia che veniva circondata dalla NATO.
Imperialismo economico e militarismo vanno a braccetto non soltanto quando si tratta di difendere gli interessi macroeconomici di interi paesi e dei loro consorzi (trans)continentali. Lo sviluppo delle tecnologie ha consentito oggi di impiegare armamenti come i droni che evitano spargimenti di sangue sui classici fronti che rimandano al confronto diretto tra le truppe come in Ucraina, su una linea di oltre millecinquecento chilometri, ma che fanno danni ingenti ad infrastrutture e alle popolazioni se i loro missili arrivano a colpire i bersagli.
Le guerre, quindi, non sono combattute da armamenti contro altri armamenti, senza perdite umane. Sono, quasi peggio di un tempo, dei massacri in cui si tenta di risparmiare le proprie truppe ma si fanno morti a profusione tra i civili. L’intenzionalità o meno è data dagli obiettivi che si pone un governo. Quello di Mosca intende annettersi mezza Ucraina, quello di Kiev vuole riprendersi tutto, dopo che, ringalluzzito dal sostegno occidentale, ha potuto fare la voce grossa fino a non poco tempo fa.
Ciò che non era stato sufficientemente previsto era la capacità russa di produrre armi in notevole quantità, nonostante i pacchetti delle sanzioni europee ed americane che, a detta dei grandi esperti del settore, avrebbero dovuto paralizzare l’economia di guerra russa nel giro di pochi mesi. Evidentemente i calcoli non li sbagliano soltanto gli strateghi di Putin al momento di invadere l’Ucraina e marciare su Kiev, ma pure gli analisti politici al servizio della NATO e del governo di Biden.
Il cedimento strutturale del fronte ucraino somiglia purtroppo tanto al cedimento di una società occidentale che non è all’altezza dei princìpi democratici e liberali che declama ogni giorno come punto focale di una morale superiore in termini di diritti sociali, civili e umani. Le guerre che si stanno combattendo tanto in Ucraina quanto a Gaza sono la più limpida dimostrazione di questa ambivalenza dicotomica: da un lato si celebrano le virtù pluralistiche del parlamentarismo e anche del presidenzialismo, dall’altro si finanziano conflitti che distruggono intere comunità.
C’è qualcosa che, oggettivamente, stride tra l’essere democratici e l’essere i principali sostenitori di Stati che fanno dell’imperialismo il loro codice di snaturazione del diritto internazionale nel corso di una contesa armata che, via via che i mesi passano, almeno per quanto concerne la questione israelo-palestinese, diviene sempre più unilaterale in quanto si mostra per quello che è: una sproporzionata azione bellica finalizzata all’esclusione dei gazawiti da Gaza stessa.
Così come il piano del governo di Kiev era, sempre su un piano etnico-politico (e militare), l’ucrainizzazione forzata dei due oblast incontestabilmente più russi di tutta la regione oggi interessata dall’occupazione dell’esercito di Mosca. Se Putin dovesse prevalere (perché parlare di “vittoria” è possibile farlo solo in presenza di una resa di una parte rispetto all’altra) e, quindi, l’Ucraina fosse costretta a cedere i territori che ha perso, non è automaticamente scritto da nessuna parte che rientrerebbe nella sfera di influenza russa.
Stati Uniti d’America, NATO e corifei europei faranno di tutto affinché sia garantita una intercapedine tra ovest ed est e che questa sia rappresentata da Kiev. Il costo di un prevedibile scenario di questo tipo è, in termini di vite umane, di distruzione di infrastrutture, di pericoli anche nucleari, di inquinamento del suolo, del mare, una enormità che va ad incidere sulle condizioni di una povertà che sta divenendo proprio una “povertà di guerra“, perfettamente inserita nell'”economia di guerra” di cui tanto si parla.
Due sono le figure internazionali che, in questo momento, appaiono lucide, pragmatiche e lungimiranti rispetto alle conseguenze dell’allargamento dei conflitti in essere in Europa, Medio Oriente e in quelli che potrebbero aprirsi in altre zone già annosamente calde del pianeta: papa Francesco e il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. Se riguardo al pontefice si risparmiano, per rispetto ad un ruolo metafisico ed anche politico alto che gli proviene dall’aura religiosa che lo circonda, all’indirizzo del vertice dell’ONU piovono critiche e stigmatizzazioni inaudite.
Mentre si susseguono affermazioni e smentite sul fatto che gli Stati Uniti abbiano, in pratica, posto una sorta di scambio ad Israele tra attacco all’Iran e aggressione a Rafah, il ministro della difesa di Israele, Yoav Gallant, senza mezzi termini ha sentenziato: «Facciamo come ci pare». Ci può forse essere una dichiarazione più esplicita di negazione dei termini democratici di uno Stato che pretende di far parte di un consesso internazionale alla pari degli altri?
Ce ne eravamo accorti. Putin rispondendo all’avvicinarsi della NATO ai suoi confini, non Zelens’kyj che è praticamente un rappresentante dell’Alleanza nel suo povero paese, ma sicuramente Netanyahu, così come gli ayatollah dall’altra parte della Mezzaluna fertile, fanno un po’ come gli pare. In barba alle regole che andrebbero rispettate da tutti e che dovrebbero essere, in potenza, il primo passo per una democrazia mondiale.
Nella contesa capitalistica del multipolarismo che amplifica gli effetti devastanti della concorrenza economica e finanziaria, non è possibile niente di tutto questo. Solo la guerra è la traduzione pratica della violenza del liberismo. Quasi tutti i governi, come un tempo si scriveva nel “Manifesto del Partito comunista“, democratici e reazionari, si sono uniti nell’escludere la possibilità della regolamentazione delle contese mediante la diplomazia.
Troppo in odore di pacificazione questa diplomazia. E la pace, oggi, è la principale avversaria dell’estremizzazione degli interessi privati fatti pagare ai popoli che subiscono i danni di una globalizzazione completamente squilibrata. Se non si riconoscono più le regole del diritto internazionale, l’unica legge che vale è quella del primitivismo giunglico: le parole di Gallant, Netanyahu, ma non meno gravi quelle di Stoltenberg sul fronte euro-russo, ne sono la più sottile, cinica, perversa dimostrazione.
MARCO SFERINI
19 aprile 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria