La richiesta Vaticana di bloccare l’approvazione del ddl Zan perché contrasterebbe con il Concordato è – forse al di là delle stesse intenzioni venute da Oltretevere – di per sé dirompente.
Nell’edizione di ieri, il Corriere della Sera ha rivelato l’esistenza di una comunicazione consegnata il 17 giugno scorso da mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, all’ambasciata italiana presso la Santa Sede; in essa si afferma che «alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato». In particolare, al comma 1 viene assicurata alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale»; il comma 3 garantisce «ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
Che la Chiesa cattolica abbia il timore che il ddl Zan comprima, nei fatti ancor più che sotto il profilo giuridico, il proprio margine di manovra e di intervento sulle questioni di genere si sapeva. Che il Vaticano potesse entrare a “gamba tesa” nel dibattito parlamentare in corso era invece meno prevedibile.
Un precedente però c’è. Il 23 gennaio 1967 Paolo VI (in un discorso alla Rota romana) esprimeva riserve sulla legge cosiddetta Fortuna-Baslini che di lì a poco (dicembre 1970) avrebbe introdotto l’istituto del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, appellandosi proprio al rispetto del Concordato.
In quegli stessi giorni, L’Osservatore Romano denunciava il grave vulnus inferto al Concordato dalla proposta di legge. Quella volta per la Chiesa non ci fu nulla da fare e il divorzio divenne legge (e il referendum indetto nel 1974 per abolirlo fu perduto). A venire revisionato fu invece qualche anno dopo (1984) il Concordato, con 14 articoli e un protocollo addizionale in 7 punti che sancivano, tra le altre cose, il superamento del cattolicesimo come religione di Stato; nuove modalità di finanziamento delle istituzioni ecclesiastiche italiane (quello che divenne poi il discusso sistema dell’8 per mille); la nuova disciplina del recepimento agli effetti civili della nullità dei matrimoni religiosi stabilita dai tribunali ecclesiastici; la regolamentazione dell’insegnamento della religione cattolica, curriculare ma non più obbligatoria.
C’è da dire che negli ultimi anni l’establishment cattolico aveva mantenuto un profilo piuttosto basso sui temi eticamente sensibili e di genere. O almeno, sicuramente più basso di quello tenuto da Benedetto XVI e dal card. Camillo Ruini all’epoca dei Di.Co, dei Family Day, delle vicende di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Sul ddl Zan la Cei aveva preso posizioni critiche, ma senza lanciare anatemi; e a maggio, durante l’annuale assemblea plenaria dei vescovi, aveva chiesto modifiche, precisando di non essere però contraria a priori al provvedimento.
Come spiegare quindi l’iniziativa della Segreteria di Stato? Qualcuno sostiene sia stata fatta senza l’esplicito consenso del papa. Ma è una ipotesi molto improbabile, anche perché il Segretario di Stato, card. Parolin, è stato scelto dal papa ed è a lui assai vicino; infine perché molti dimenticano che da arcivescovo di Buenos Aires, quando nel 2010 il governo argentino decise di legalizzare i matrimoni gay, Bergoglio definì il provvedimento «un attacco devastante ai piani di Dio» «ispirato dall’invidia del diavolo», divenendo il punto di riferimento delle manifestazioni a favore della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna che si susseguirono tra la primavera e l’estate di quell’anno. Insomma, il papa sui temi cosiddetti “eticamente sensibili” e di genere non è affatto progressista.
Non è allora da scartare l’ipotesi che il Vaticano abbia scelto di muoversi nel tentativo di condizionare il dibattito parlamentare non più attraverso la mobilitazione diretta dei propri fedeli e delle proprie organizzazioni (prospettiva ormai poco praticabile e con molte controindicazioni), ma attraverso la pressione istituzionale e la forza giuridica che le viene dal Concordato.
Del resto, se già la capacità di mobilitazione delle masse cattoliche era scarsa all’epoca di Ruini (che boicottò cavalcando l’astensionismo il referendum sulla fecondazione assistita del 2005 perché conscio di non essere in grado di sconfiggere il “sì” nelle urne; e che sapeva di avere autorità sui dirigenti del laicato cattolico, ma non più sull’opinione pubblica cattolica), oggi probabilmente la Chiesa di Bergoglio si rende conto che lo scontro frontale sul ddl Zan sarebbe perdente in partenza; ma che la via istituzionale-giuridica può ottenere qualche risultato. Ossia qualche modifica al testo. Senza compromettere l’aura di apertura e modernità che circonda il papa. E senza nemmeno compromettere il dialogo con la cultura laica, secolarizzata e finanche progressista avviato sotto questo pontificato dopo gli anni difficili di Benedetto XVI.
VALERIO GIGANTE
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