Il veliero è di per sé l’immagine della nave che si affida in tutto e per tutto al buon vento e che deve sopportare anche quello cattivo: turbini marini, tempeste ma pure correnti che la dirigono verso sicuri approdi. La “Alex” di Mediterranea ha salvato 54 naufraghi da un destino cinico, baro e infame ed ora si ripete, pari pari, il copione già visto con la “Diciotti”, con la “Sea Watch 3” pochi giorni fa: il governo respinge l’imbarcazione, nega che vi siano accordi con Malta per trovare una soluzione allo sbarco di migranti in estrema difficoltà e si riapre il campo alla sfida, alla tenzone che viene tutta addebitata alle organizzazioni non governative che arrivano là dove nessuno vuole arrivare o non può arrivare.
Si odono già le frasi fatte del ministro dell’Interno: “Portateli altrove”, in Tunisia nella fattispecie della “Alex”; peccato che nessun porto di quel paese sia considerato “sicuro” e non per generica diceria, ma secondo criteri specifici dettati da valutazioni ufficiali di organizzazioni internazionali che tutelano proprio il diritto in tal senso, la legislazione marittima in questo frangente.
Poi basta aprire un qualsiasi atlante geografico per rendersi conto che quell’isoletta chiamata Lampedusa, che sta sulla tettonica africana, quindi su un versante geologicamente diverso dal resto del Mediterraneo settentrionale, è il punto di approdo naturalmente più vicino alle coste libiche, tunisine…
Ma siccome si negano evidenze ben più gravi di un puntino di terra italiana extraeuropea (geologicamente parlando, si intende), non stupisce che anche la posizione di un’isola sia oggetto di accese discussioni tra agitatori e polemisti sovranisti da un lato e persone che vogliono solo spendere la loro vita per aiutare i più deboli di questo porco mondo.
Si ode anche un’altra detrazione da parte dei sovranisti e di larga parte di un popolo italiano sedotto dal nuovo conducator della Nazione: “E’ evidente l’intento politico di queste organizzazioni. Sfidano il governo”.
E fanno bene! Questo governo deve essere messo alle corde sul rispetto delle regole internazionali sui diritti umani quanto sulle formalità che riguardano la politica nazionale, il rispetto della separazione dei poteri ed anche – se non soprattutto – il rispetto per tutti i deputati e i senatori quando parlano e dopo che hanno parlato.
Un ministro dell’Interno che dai banchi del governo, alla Camera dei deputati, manda ironici baci a chi lo ha appena criticato, mostra rispetto per il suo ruolo e per quello dell’istituzione cui appartiene, cioè il governo della Repubblica?
Davvero oggi, nell’epoca disgraziata del sovranismo, si risponde così ad un deputato che, nel suo pieno diritto, rappresentando ad esempio la mia opinione con il suo intervento, viene irriso e dileggiato da volanti e ideali baci per comunicargli che le parole appena ascoltate gli fanno un baffo, gli scivolano addosso e non lo toccano minimamente?
Viene da rimpiangere davvero la schiera di ex ministri democristiani e socialisti persino dei governi Berlusconi: da Giuseppe Pisanu a Gianni Letta, da Giuliano Urbani ad Antonio Martino. La polemica durissima, lo scontro frontale di allora tra noi comunisti e i governi neri di un centrodestra che avrebbe guidato per ben tre volte il Paese alternandosi (sciaguratamente per entrambi, a seconda dei punti di vista) al Centrosinistra, erano naturali, quasi scontati: i disastri fatti dal berlusconismo li paghiamo tutt’oggi, ma il salvinismo sovranista è molti gradini più in basso tanto sulla forma quanto sulla sostanza dei pericoli per una democrazia sotto costante attacco da più versanti.
Quindi esistono vari modi di nuocere alla Repubblica, al bene comune: c’è chi lo fa accontentandosi di avere il potere e gestendolo anche per nome e conto degli industriali, di un padronato che allora aveva trovato in Forza Italia un punto di riferimento per contrastare il riformismo dei DS e della Margherita; c’è chi invece oggi il potere lo assume su di sé, forte dei dati elettorali in termini sia di percentuali, sia di numeri assoluti, sia dei sondaggi che lo danno in costante ascesa, e a tutto ciò aggiunge un comportamento che sfregia le istituzioni, che le mette le une contro le altre, che per sembrare “popolare” vuol dimostrare di essere differente dal resto del panorama politico.
E’ una differenza pericolosa perché vuole delegittimare le forme dell’azione politica, della costruzione delle leggi, dell’impianto complessivo delle istituzioni repubblicane per arrivare ad una trasformazione de facto di ciò che può anche permettersi di lasciare apparentemente de iure.
Formalmente, quindi de iure, la Germania di Adolf Hitler era una repubblica federale, semipresidenziale. In termini di concretezza, quindi de facto, era una dittatura totalitaria spietata, che non ammetteva nessuna opposizione, nessuna critica, nessun dissenso.
Quindi, occorre prestare molta attenzione alla forma perché spesso protegge anche la sostanza e impedisce una degenerazione, un degrado morale, uno svilimento in comportamenti che, se messi in essere da chi interpreta una delega a gestire le sorti del Paese attraverso il mandato parlamentare che è esso stesso frutto di una delega da parte popolare, si rischia di distorcere qualunque concetto, qualunque emanazione fattiva del medesimo e portare al ridicolo le obiezioni tanto morali quanto legali che si possono sollevare.
Se fare il ministro significa rappresentare tutte e tutti, nessuno, soprattutto nessun ministro della Repubblica, può rivolgersi al Parlamento se non nei modi e nei termini di un rapporto soprattutto egualitario: le battute pungenti, gli esercizi di retorica e gli scambi polemici sono persino gradevoli da ascoltare. A volte pare di assistere ad una gara di scacchi, ad una partita di tennis, ad un schermaglia olimpica: la capacità oratoria dovrebbe trovare nel Parlamento una sua naturale crescita per qualunque rappresentante del popolo italiano.
Invece spesso è stata oggetto di insulto e di ridicolizzazione tra cappi esibiti come gogna (anche mediatica), fette di mortadella ingoiate come se si stesse nella peggiore delle orge romane e proteste scivolate nello scontro fisico (celebre fu l’episodio che travolte l’allora deputato dei Verdi Mauro Paissan, nei lontani anni ’90…).
La dialettica invece deve poter avere e conservare una sua dignità, così come la devono ritrovare ed avere tutte le istituzioni del Paese, ciascuna delle quali ha il diritto di essere rispettata e il dovere di rispettare le altre: tanto nelle dirette su Facebook quanto nelle aule vere e proprie del Parlamento repubblicano.
I tempi in cui viviamo ci parlano invece di un capovolgimento del senso istituzionale degli incarichi assunti, di una violenza verbale che si irrora nelle vie delle città, che raggiunge persino i paesini più remoti della nostra Italia attraverso la televisione, con dibattiti quotidiani che fomentano quella narrazione secondo cui siamo in pericolo, davanti ad una invasione di “stranieri”, mentre nessuno parla più dei gravi problemi occupazionali, dei morti sul lavoro e del becero sfruttamento delle giovani generazioni che si dividono tra scuola e lavoretti precari per poi finire nel tritacarne degli apprendistati pagati poco, gestiti male e generatori di altra rabbia indiscriminata e sfiducia verso la propria vita futura.
I tempi in cui viviamo sono perciò i peggiori da un trentennio a questa parte: alla cattiva politica s’è unita la cattiveria della politica per avere consenso popolare, per alimentare un corto circuito di veleni che dà i suoi frutti e moltiplica gli atti di aggressione verso chi è considerato “diverso” per il colore della pelle, per la sua indigenza, per la sua debolezza fisica dettata dalla vecchiaia, per il fatto di amare gli uomini o le donne, oppure entrambi.
La cattiveria è violenza. Ma la derisione non è da meno, perché è umiliazione e senso di superiorità espresso con un cinismo che inizia a non avere eguali nella storia recente di una repubblica tutto sommato ancora molto giovane.
MARCO SFERINI
5 luglio 2019
foto: screenshot dall’intervento di Nicola Fratoianni alla Camera dei Deputati rivolto al ministro dell’Interno