La candidatura di Casini: il terzo indizio che fa la prova

Agatha Christie sosteneva che: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Nella disordinatissimo panorama della politica italiana di mezza estate,...

Agatha Christie sosteneva che: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Nella disordinatissimo panorama della politica italiana di mezza estate, basterebbe già un solo elemento probatorio a carico dell’imputato per dichiararne la certa colpevolezza.

E non tanto perché si voglia eludere quel necessario garantismo che è uno dei pilastri del nostro diritto; semmai perché la reiterazione del vizio (perché oggettivamente di reato qui non si può proprio parlare) è endemica, strutturalmente connaturata alla modernità della scomposizione e ricomposizione degli schieramenti in campo.

Giorni fa, quando Calenda lasciò precipetevolissimevolmente la coalizione del PD per dirigersi verso i canoni del renzismo, avevamo già due indizi sulla tenzone neocentrista, sul riposizionamento di tante formazioni politiche in quel settore dove pare si vinca sempre e dove pare si vinca, ancora di più, perché si determinano gli equilibri parlamentari e si contribuisce, in questo modo, a dare sostanza ai tanti trasformismi che, da episodici, sono diventati la costante anche della dialettica interpartitica di questo disgraziato Paese.

Adesso, se proprio volevamo essere certi di trovanrci innanzi ad una competizione dove la concorrenzialità è accesissima, dove non sono solo Lupi, Toti, Renzi, Calenda, Brugnaro, Forza Italia e + Europa a spartirsi i consensi del mondo imprenditoriale e finanziario dell’Italia nemmeno tanto post-draghiana, con la diatriba tutta interna al PD sulla candidatura di Pierferdinando Casini, ecco che abbiamo il terzo indizio. Quindi, la prova.

Che la rappresentanza dei privilegi e del privato si giocasse al centro era evidente. Un po’ meno certa era la probabilità che anche il PD intendesse marcatamente segnare, con la bandierina del quarantennale in Parlamento dell’ex Presidente della Camera e del suo undicesimo mandato, il proprio posto in questa partita dove in ballo ci sono anche i voti delle tante forme sociali, culturali, sindacali e civili in cui il mondo cattolico si esprime e che sono il peso sostanziale sulla bilancia di ogni tornata elettorale.

Invece di privilegiare candidature che esprimano in Parlamento un argine laicamente democratico (e viceversa) davanti alle prepotenze che le destre avanzeranno in materia di diritti civili e di rispetto dei patti tra lo Stato e la Chiesa sanciti dalla Costituzione, Letta ritiene che proprio da persone come Casini arrivi un valido sostegno alla Carta del 1948.

Non che la storia della Democrazia Cristiana, di per sé, non sia stata caratterizzata da importantissimi momenti in cui un compromesso è stato trovato tra le spinte clericali e la difesa di una laicità tutta da costruire a partire dal dopoguerra e dalla rinascita culturale nazionale che univa tanto la famiglia tradizionalmente intesa quanto i valori del lavoro e di una società anche a-confessionale.

Lo stesso accordo sull’articolo 7, in fase di elaborazione e scrittura nelle commissioni dell’Assemblea Costituente, è la conseguenza storica della fine di una Italia monarchica e liberale in cui il regime fascista era già addivenuto a patti con il Vaticano, permettendone la ricostituzione come micro-entità statale indipendente, tollerandone la presenza nel nome della rispettabilità interna ed internazionale del regime stesso. Non era possibile per Mussolini mantenere intatto il consenso al fascismo senza avere dalla sua parte, oltre ai capitalisti e alla monarchia, anche il papa.

Oggi, in questa estate del 2022, la questione non riguarda i Patti Lateranensi di prima e nemmeno di seconda scrittura, ma concerne semmai una combinazione di fattori che dovrebbero essere messi in chiaro preventivamente, onde evitare di trovarsi dopo il 25 settembre con una maggioranza di destra liberal-sovranista con agganci pericolosi sul versante centrista-progressista in merito ai temi dei diritti civili, delle libertà che ne derivano e di un egualitarismo che abbraccia tutta la vita quotidiana di ogni cittadino della Repubblica.

La candidatura di Casini in quella Bologna, dove sezioni intitolate a Gramsci giustamente ancora si fanno venire un po’ di prurito nel dover ritornare a votare un democristiano di lunghissimo corso, passato dalle sponde della destra a quelle del centrosinistra, è emblematica da questo punto di vista: un tempo, quando c’era il PCI si candidavano indipendenti di sinistra nelle liste del grande partito, paese nel paese.

Da un po’ di tempo a questa parte, scomparso quel fenomeno politico-sociale che stava sotto l’emblema disegnato da Guttuso, tolte di mezzo anche le ultime benevole scorie socialdemocratiche ai piedi delle querce, l’anomalo bicefalo del Partito democratico ha prodotto un interculturalismo che è perfettamente in sintonia con un inteclassismo che, nei fatti, nega qualunque genuina difesa dei diritti dei lavoratori e delle classi meno abbienti e più sfruttate.

Il caldo, la conda pandemica, la guerra e la fretta con cui ci si proietta verso il voto, insieme al raffazzonato clima politico generale, forse non permetteranno nemmeno stavolta di riconoscere che, tante volte, il nemico del nostro nemico non è sempre nostro amico; quindi di avere la chiara dimostrazione, lapalissianamente palese, della connotazione centrista di un PD che gareggia con le altre forze politiche a rappresentare antisocialmente in Parlamento quella parte minoritaria della popolazione che possiamo ancora oggi definire “classe dirigente“.

Non è una polemica costante contro il PD. Dentro a questo partito vi sono ancora tante compagne e tanti compagni che credono, del tutto in buona fede, di servire la causa del lavoro e i bisogni delle persone meno tutelate attraverso il sostegno a quella che reputano una grande aggregazione democratica e progressista.

Se consideriamo questi termini come espressione di un liberalismo che, di volta in volta, si adatta alle pretese del mercato e del capitalismo italiano che prova a galleggiare in mezzo ai nuovi assi mondiali che tentano di uniformare la globalizzazione da est a ovest, allora è anche possibile scorgere una qualche differenza con l’interpretazione sovranista che privilegia uno sviluppo nazionale dell’economia, pur non disconoscendo affatto le affiliazioni ormai consolidate, come l’Unione Europea, che sono i contenitori entro cui possono sopravvivere tutte le singole debolezze locali.

Ma il PD, che certamente è un partito democratico (almeno un omen nomen riconosciamoglielo), è davvero difficile poterlo pensare come forza progressista se si prova a mettere insieme politiche civili con politiche sociali. Per poter ottenere di avanzare sul terreno delle prime con compiutezza e totalità, Letta dovrebbe abbandonare la contesa centrista, disconoscere la sua stessa storia politica e trasferirsi dentro un perimetro dove il progressismo sarebbe caratterizzato da richieste che non potrebbero mai e poi mai rientrare nella tanto sbandierata “agenda Draghi“.

La candidatura di Casini è un terzo indizio dell’involuzione liberista del PD, ormai irrefrenabile e incontrovertibile, ma non è certamente la prova regina di tutto ciò. Quando ci siamo chiesti, un po’ retoricamente (e quindi con una vena di ironia), se ci sarebbe potuti fidare della svolta progressista dei democratici, che si poteva leggere nel programma elettorale dato ai mass media alcuni giorni fa, gli indizi per arrivare alla formulazione di quella prova c’erano tutti. E non dalla fine del governo dell’ex banchiere europeo. Ma da anni.

Non è sufficiente difendere i diritti civili dei cittadini per dirsi di sinistra, per dirsi progressisti. Democratici, ormai, finiscono col dirsi tutti. Anche Meloni e Salvini. Il rischio, per le parole e per quello che realmente rappresentano, sta nel loro smodato e spropositato utilizzo. Se davvero tutti possono dirsi democratici, dove starà il termine di paragone, il contrario della democrazia? Sarebbe un bene se non vi fossero più antidemocratici, a-democratici, oppure critici della democrazia al punto da preferirle una Repubblica presidenzialista che, poco a poco, neghi sé stessa per diventare una autocrazia dal sapore magiaro o polacco.

Non è sufficiente difendere le libertà civili quando si negano, con politiche governative che hanno falcidiato gli interessi dei più deboli, le fondamenta di vita di coloro che sono i veri produttori della ricchezza nazionale. Non gli imprenditori, ma i lavoratori, i precari e tutti coloro che permettono ai padroni e ai finanzieri di potersi spacciare per i salvatori della nazione, per la parte rispettabile internazionalmente di una Italia sempre più povera e trascurata nei suoi gangli vitali.

La candidatura di Casini è, intesa in questo coacervo di problematiche più generali, un piccolissimo fatto di cronaca politica. Un indizio modesto di un castello di prove che dovrebbero indurre i lavoratori a non votare più chi a parole sostiene di difenderli e poi costruisce governi in cui l’avversario di classe si sente assolutamente, completamente rappresentato e sostenuto. Ma, non temete… C’è sempre l’arma del “voto utile” pronta ad essere impugnata nelle ultime settimane di campagna elettorale, per convincervi col ricatto della paura dell’avvento delle destre a sostenere l’esatto contrario di ciò che sono i vostri interessi. Di classe.

MARCO SFERINI

16 agosto 2022

Foto di cottonbro studio

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