La caduta della diversità

Le pagine centrali di Repubblica sono state dedicate ieri al ricordo della famosa intervista rilasciata trentacinque anni fa dal segretario generale del PCI, Enrico Berlinguer, al direttore Scalfari attraverso...

Le pagine centrali di Repubblica sono state dedicate ieri al ricordo della famosa intervista rilasciata trentacinque anni fa dal segretario generale del PCI, Enrico Berlinguer, al direttore Scalfari attraverso la quale fu lanciato il grido d’allarme sulla “questione morale” e sull’invadenza dei partiti all’interno di ogni articolazione dello Stato.

Scalfari, oggi, dopo aver lavorato a lungo per “normalizzare” la diversità del PCI (ben affermata, invece, proprio da Berlinguer nella fase politica contrassegnata dalla proposta di “alternativa democratica”), la riscopre oggi pronunciando una frase per certi versi sorprendente: “non esiste più la diversità della sinistra, nessuno ha seguito la cura”.

In verità la diversità della sinistra non esiste più perché non esiste più la sinistra, quella storica, di derivazione dalla tradizione del movimento operaio e delle grandi articolazioni politiche che proprio da quella storia derivarono a confronto con i grandi tornanti del ‘900: la Rivoluzione d’Ottobre, l’antifascismo, la Resistenza, la Repubblica e la Costituzione.

Il ruolo del PCI risultò, in allora, decisivo (come, in allora, quello degli altri soggetti politici dal PSI, allo PSIUP, al PdUP, pur nella diversità delle dimensioni all’interno di quella che Pietro Scoppola ha definito la “Repubblica dei Partiti”).

Vale la pena soffermarsi ancora oggi su quella storia, sulle ragioni della sua conclusione, su come e quanto quel Partito influì nella storia del nostro Paese e dell’intero movimento operaio internazionale, avendo assunto per un lungo periodo la dimensione del più grande ed importante Partito Comunista dell’Occidente?

Una domanda alla quale è molto difficile fornire una risposta mentre i rischi di cadere nella ripetitività dell’analisi e in una sorta di agiografia di second’ordine sono molteplici.

Pur tuttavia è ancora il caso di soffermarci su quella storia cercando di partire da un assunto di fondo: quello del PCI forma politica del comunismo italiano (pur in presenza di una complessità di soggetti che al movimento comunista e alle dimensioni critiche presenti al suo interno si sono richiamati) e soggetto centrale del sistema politico imperniato sui partiti, la centralità del Parlamento, il sistema elettorale proporzionale nel quadro del vincolo esterno prodotto dalla logica dei blocchi, collegando quel livello d’analisi con la riproposizione di una ricerca sulle ragioni del declino e della perdita d’identità.

La ragione per la quale si può considerare il PCI quale forma politica originale del comunismo italiano all’interno di un peculiare (rispetto al modello occidentale) sistema dei partiti. risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci, infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni.

Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.

Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo.

La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico.

Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza.

Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale.

La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato.

Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista.

L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.

Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difendeva, infine, bel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.

Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale.

In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali.

Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1977) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito estendendo lo storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso.

La concezione del marxismo in Gramsci è quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale.

Il più valido spunto critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 da Raniero Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività.

Panzieri era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”.

La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord” di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono a questi importanti spunti di analisi di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano.

Non risultò neppure all’altezza di quel confronto il punto di dibattito apertosi al momento della scomparsa di Togliatti, ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri che rimproverava, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”) e di aver annacquato il marxismo nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi rivendicando un primato del politico sull’economico.

Un primato della politica che avrebbe smarrito il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria (attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico.

Restarono così punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo.

Emersero così limiti forti di vero e proprio politicismo al punto che, con gli anni’70, si sviluppò una sorta di “primato dell’autonomia del politico” che portò, sulla base del prevalere del concetto di governabilità, al collasso della teoria: ben in precedenza alla stagione degli anni’80 che portò alla liquidazione del partito.

Per questi motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico, primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI è stato un solo soggetto politico autonomo rispetto al panorama presente nel movimento comunista internazionale, specificatamente presente con la sua impronta all’interno del sistema politico italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha ruotato attorno.

Come scrisse Rossanda: “ è stato il PCI di Berlinguer l’erede di quello di Togliatti, e non altri, noi compresi”.

Vale allora la pena di capire meglio perchè, a distanza di tanti anni, vale ancora la pena di ragionare sul declino di quella forma politica.

Intendendo questa analisi come paradigmatica di un declino complessivo di sistema.

Dall’inizio degli anni’80 l’emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell’elaborazione che nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali ed ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi.

Cominciava, in sostanza, a far breccia, anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni’80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l’insegna del reaganian – tachterismo), e i paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest.

Andò cosi’ maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale ed ideale.

A questo punto debbono essere richiamate almeno tre posizioni (le più esemplificative) che hanno posto in luce come in pochi anni, anche in un paese come l’Italia considerato paradigmatico di un “caso” proprio perché vi si trovava presente il più grande partito Comunista d’Occidente, questa offensiva “neocons” avesse modificato, in modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell’area dell’opinione pubblica progressista, compresa buona parte della sinistra d’opposizione, con conseguenze fortemente negative che poi si sarebbero manifestate, anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici:

1) In primo luogo cominciò a raccogliere consensi, trovando ascolto anche in larghi settori della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell’Europa dell’Est, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze di Stato Sociale, sviluppatesi ad Ovest e nel Nord Europa , per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto “libero mercato”, dell’individualismo consumistico. Non   a caso l’idea di riaffermare o ricostruire un “punto di vista di sinistra” in economia ( a partire, per esempio, dai problemi dell’occupazione o della tutela ambientale o del definire una diversa gerarchia di priorità e di finalità nella produzione e dei consumi) incontrava difficoltà via, via, più estese ed anzi veniva rigettata, quasi pregiudizialmente, nell’opinione più diffusa, come astratta e velleitaria. La conseguenza è che diventava quasi un luogo comune affermare che il banco di prova per dimostrare la maturità di governo della sinistra risiedeva, ormai, nella capacità di far valere come scelta prioritaria, senza concessioni a ideologismi solidaristici o a interessi corporativi, il rispetto dei vincoli “oggettivi” delle compatibilità finanziarie e monetarie (da ciò è derivata l’accettazione acritica dei parametri imposti per l’unificazione europea, dal trattato di Maastricht: acriticità che impedito di vedere in tempo le possibilità di rivedere il patto di stabilità, fino alla crisi che oggi investe, appunto, gli equilibri politici ed economici del processo di allargamento dell’Europa a 28).

Tornando però al periodo di avvio del declino del PCI deve essere, ancora, fatto rilevare che il diffondersi di queste posizioni di accettazione dell’impostazione neo-liberista ben al di là della tradizionale area moderata, avvenuta tanto più in una fase di intense ristrutturazioni (a partire dai 35 giorni della Fiat del 1980) che già tendevano, in allora, a ridurre e a rendere più precaria l’occupazione, ad accentuare la flessibilità della risorsa lavoro (fino alle esasperazioni attuali) e della risorsa ambiente, a diminuire i vincoli e i costi sociali che pesavano sulla produzione, abbia avuto il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela del mondo del lavoro e a modificare, a svantaggio della sinistra, i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale.

Non a caso, proprio a partire da quella fase, è stato possibile parlare dell’affermazione di quello che è stato definito “pensiero unico” ispirato, appunto, dalla teoria neoliberista;

2) In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni’80 l’insistente campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie.

Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di larga parte dell’opinione pubblica.

E’ quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui ad esserci, alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie.

Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l’essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” ( e partiti ideologici per eccellenza erano considerati,in Italia, la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista), ma anche come demistificazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica.

Alle “finalità”, e al loro presunto retroterra ideologico, andava così contrapposta l’idea della presunta “concretezza” dell’apertura al nuovo, al moderno.

Al punto da presentare, sulla scena del confronto politico, una inedita contraddizione tra “vecchio” e “nuovo”.

Una contraddizione assunta, al punto, da considerare il cosiddetto “nuovismo” come criterio di commisurazione della validità dell’iniziativa politica.

Non c’è bisogno di ricordare, sia pure a distanza di quindici anni, quanto peso abbia avuto una simile posizione nella fase di passaggio del PCI al PDS, cioè dal vecchio “partito ideologico di massa” alla “cosa” di cui non si riconosceva né il nome, né il programma, e neppure le finalità ed i contenuti;

3) Il terzo punto riguarda, infine, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti avesse assunto, via, via ,nel corso del decennio, anche in settori, via, via più estesi del gruppo dirigente comunista, un mutamento di segno.

Si era passati, infatti, dalla domanda di “rinnovamento della politica”, così come era stata formulata da Berlinguer, ad una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto) attraverso il cambiamento delle regole istituzionali ed elettorali.

Si spalancò così, in quel modo, la porta alla deriva decisionista, in particolare all’idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l’alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno.

Per “sbloccare il sistema politico” il PCI avrebbe dovuto, così, mettere in discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso”, omogeneizzandosi agli altri partiti.

Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del Partito Comunista Italiano.

Tutto questo è avvenuto mentre la crisi della democrazia italiana era giunta, verso la fine degli anni’80, a un punto di estrema gravità.

La grande occasione che si era pur presentata nel corso del decennio precedente era andata perduta, per cause oggettive e soggettive, senza che si riuscisse a dispiegare quella capacità di promuovere un radicale rinnovamento nel modo di governare, del costume, dello spirito pubblico, del senso dello Stato di cui il paese avrebbe avuto estremo bisogno, ma che, ancora una volta era stato mancato.

La caduta della “diversità”

Lo scioglimento del Partito, compiuto con la svolta del 1989, non è dunque avvenuto nell’affermazione di una necessità di una innovazione radicale, che segnasse nelle forme più risolute possibili il più netto distacco da quel sistema sociale e politico, che stava franando in Unione Sovietica e negli altri paesi dell’Est.

Lo scioglimento del PCI è avvenuto, invece,   senza approfondire e sviluppare quegli aspetti peculiari dell’elaborazione e della politica dei comunisti italiani che erano sostanzialmente alternativi al modello sovietico, ma, al contrario, ponendo in atto una generica rottura con la tradizione comunista.

La liquidazione del PCI fu compiuta, a questo modo, oscurando anche ciò che aveva rappresentato la specificità e l’originalità dell’esperienza del PCI e quanto questa specificità avesse rappresentato nell’insieme dell’architettura del sistema politico, collegato a due punti essenziali: la centralità del Parlamento e il sistema elettorale proporzionale, fondamento della rappresentatività dei partiti politici.

Ma le vere ragioni della scelta di liquidare il PCI e con esso l’insieme del sistema politico furono, probabilmente, ancora più profonde: stavano nella crescente subalternità ideale e culturale, e di conseguenza anche politica, che già negli anni precedenti era venuta caratterizzando le posizioni del gruppo dirigente comunista.

E’ stato come se, conclusa la fase convulsa del “compromesso storico e dell’affermazione della “diversità” berlingueriana fondata sulla “questione morale”, si fossero andate, a poco, a poco, inaridite le stesse fonti della peculiare identità del PCI.

La preoccupazione fondamentale, per larga parte del gruppo dirigente comunista, sembrava essere diventata quella di trovare un decoroso approdo nella grande famiglia dei partiti socialdemocratici europei e di riuscire, finalmente, ad infrangere in Italia la “conventio ad excludendum”.

In questa prospettiva fu sottovalutata la crisi complessiva del sistema politico italiano, già prossimo a franare su se stesso per ben diversi motivi dalla mancata alternanza, ossia a a causa del montare dell’onda di Tangentopoli, dalla crescita ogni altra previsione della protesta leghista, dell’esplodere del deficit pubblico al di là di ogni ragionevole livello di guardia.

Mentre il PCI si scioglieva l’Italia si apprestava ad essere dominata da una politica fondata sulla personalizzazione, sull’uso spregiudicato dei mass – media, sul liberismo più aggressivo intrecciato ad un populismo di basso profilo: proprio nel momento in cui la “diversità” dei comunisti italiani avrebbe potuto rappresentare un argine a questo dilagare di mediocrità culturale e politica, questa veniva dismessa aprendo la strada alla più completa omologazione “governista” della sinistra storica italiana.

Lo scioglimento del PCI rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo: i suoi eredi, mutate diverse denominazioni da PDS, a DS e PD e collegandosi con alcuni dei residui del vecchio apparato del partito cattolico, hanno accettato “in toto” i meccanismi fondamentali di quell’eterna “transizione italiana” apertasi con lo scioglimento del partito, dal maggioritario, al presidenzialismo (esercitato direttamente, ponendosi ai limiti della Costituzione Repubblicana dal primo Capo dello Stato proveniente dalla storia del PCI quale esponente della destra interna, ben più legata – è bene ricordarlo – alla tradizione sovietica rispetto alle altre sensibilità presenti nel partito), all’accettazione delle formule liberiste che sono state e stanno all’origine della grande crisi che stiamo vivendo, fino al tentativo in atto di far uscire la Repubblica dalla dimensione parlamentare definita dalla cornice della Costituzione antifascista.

Il PD, infatti (usando addirittura ed incredibilmente la struttura delle “primarie” per la selezione del gruppo dirigente, inteso come gruppo “elettorale”) si è reso pienamente competitivo sul terreno di quella concezione esaustiva della “governabilità” facendola sconfinare definitivamente, come dimostrano gli ultimi episodi in una vera e propria “questione morale”, ultima e definitiva tappa di una degenerazione dell’agire politico che attanaglia il sistema politico italiano.

Dalla logica delle primarie è uscito così un abbozzo di gruppo dirigente capace di riesumare addirittura il concetto di “giovanilismo” e di attivismo purchessia, che stanno alla base di una involuzione del sistema politico simile a quella già attraversata nella storia d’Italia in momenti particolarmente drammatici di costruzione di regime.

E’ rimasta così soffocato l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato.

Pensiamo al vuoto lasciato da una assenza della vocazione internazionalista nel momento in cui, come nell’attualità, si è trascinati all’interno della logica dello “scontro di civiltà”, dopo aver assistito inerti all’affermazione per via bellica del concetto di “esportazione della democrazia” e delle sue conseguenze in termini di quel razzismo propedeutico all’instaurazione del regime di terrore sul quale gli establishment, in Occidente come in Oriente, puntano per mantenere il proprio dominio.

Si tratta di un punto di riflessione da sviluppare proprio al fine di poter riprendere un discorso che non risulti, come sta avvenendo da qualche parte compreso il ricordo di Scalfari e di “Repubblica”, meramente caricaturale.

FRANCO ASTENGO

29 luglio 2016

foto tratta da

categorie
Franco Astengo

altri articoli