Sento da alcuni commentatori che non è comprensibile il rifiuto, anche la sola criticità verso la celebrazione dei Trattati di Roma del 1957, quelli, tanto per fare un po’ di storia contemporanea, che istituirono le basi della moderna (si fa per dire) Unione Europea. Allora si trattava di dare vita alla CEE, la Comunità Economica Europea, una unione che si è evoluta (o involuta) nel tempo fino a diventare quell’insieme anomalo di stati nazionali che sono ancora tali e che qualcuno vorrebbe riportare in auge contro il predominio imperialista delle istituzioni che reggono il Vecchio Continente.
Sono entrambe risposte sbagliate: sia il ritorno completo dello Stato nazionale sia la rottura del patto europeo. Sono risposte sbagliate ad una giusta domanda di ritorno ad una sovranità che significhi equipollenza di trattamento dentro al contesto dell’Unione che non deve annullare le specificità in nessun modo e in nessun campo e non deve, al contempo, privilegiarle ma valorizzarle dentro una armoniosa compensazione tra pregi e difetti, eccedenze e mancanze.
Invece, questa Europa del capitale, del mercato e della grande finanza è a ben vedere irriformabile: è irriformabile il suo impianto economico, quindi quello su cui tutto il resto si regge e si sviluppa. Perché l’impianto statuale quasi non esiste: nemmeno i costituzionalisti più esperti sanno dare una definizione precisa dell’Unione Europea.
E’ una confederazione di stati? No, non lo è. E’ una specie di Confederazione del Reno di napoleonico ricordo? Nemmeno, perché pretende di essere essa stessa la dominatrice degli stati e non la dominata da un impero esterno.
E’ simile ad un impero asburgico, unitario, federale ma con un forte centro organizzatore? Nemmeno: l’unico centro forte della UE è la sua banca, detta appunto “centrale” perché in sé riunisce ciò che un tempo erano le prerogative delle singole banche nazionali. Non esiste un centro politico che sia indipendente e autonomo dalla BCE.
La Commissione Europea, che dovrebbe essere il governo di questo agglomerato di stati indipendenti, è subordinata alle decisioni della banca e il Parlamento europeo serve soltanto a ratificare le decisioni che la Commissione prende su dettame della BCE.
Diciamo che almeno una cosa la si può chiaramente definire: questa Unione Europea non è una democrazia, ma un insieme di tante democrazie, variamente dette e formate nel tempo, dopo una seconda guerra mondiale che aveva visto la Germania spezzettata in due stati e quattro zone d’occupazione salvo diventare il terreno di rifertilizzazione del mercato transoceanico nel cuore di un continente appena falcidiato dalla ferocia del nazismo e del fascismo.
Ma allora nel 1957 e nei decenni seguenti, a cosa abbiamo assistito quando abbiamo sentito parlare e scrivere sempre più spesso di “Europa”, rifacendosi al povero Altiero Spinelli in chiave di padre del federalismo moderno o ad Alcide De Gasperi come costruttore di una nuova Italia atlantica dentro al contesto dello sviluppo dei vari patti che andavano nascendo: dalla Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (1951) fino, per l’appunto, ai Trattati di Roma?
Forse soltanto alla costruzione di quella che non è altrimenti definibile se non come una “associazione”, una “organizzazione internazionale” fra stati sovrani, indipendenti che hanno concesso parte di tutto ciò sul piano monetario, favorendo l’unità dei mercati piuttosto che dei popoli, la mobilità della moneta unica piuttosto che delle persone e fingendo di abbattere le frontiere (Trattato di Schengen) e rafforzando il controllo di quelle esterne solo per gli esseri umani, per quei profughi che fuggono e che trovano la “Fortezza Europa” ad attenderli.
Dal 1957 ad oggi l’Europa che si è andata costruendo si è formata sul potere esclusivamente economico, una dinamica più o meno coordinata di stati trainanti e di stati trainati che hanno messo insieme forze e debolezze non per mutuo soccorso ma per favorire il dominio del prevalente.
Ed oggi tutti sappiamo che l’economia europea è a trazione tedesca e che la cosiddetta “locomotiva” germanica è essa stessa quell’Europa che detta le formule e le cifre di bilancio per gli stati che devono “obbedir tacendo”, adeguandosi agli standard non comunitari ma di un singolo Stato.
Qualcuno ha forzato i paragoni storici e ha definito questa Europa un “Quarto Reich”: è una espressione che non serve molto a rendere fedelmente la fotografia del continente. Non ci troviamo in una dittatura fatta di terrore fisico, politico, anticivile. Ma semmai ci troviamo in un contesto fortemente antisociale, in una dittatura del liberismo sfrenato, dell’imposizione delle clausole di austerità nei confronti di paesi che non possono pagare i loro debiti e che, per questo, vengono ricattati sempre maggiormente. L’esempio greco è ancora vivido davanti alla recente storia e la sinistra radicale di Tsipras, che ha tentato di arginare le pretese della Troika e tutelare il proletariato ellenico, ha finito col dover comprendere che da soli si perde e che serve una unità europea delle forze antiliberiste di sinistra.
Per questo uscire dall’Europa è controproducente: impedirebbe una visione di insieme da parte dei comunisti e delle comuniste, dei partiti che aderiscono al GUE/NGL, al Partito della Sinistra Europea.
La lotta dei poveri lasciamo che siano i padroni e i grandi capitalisti a scatenarla: a noi tocca pensare di unire il più possibile anche in mezzo ad evidenti contraddizioni che schiacciano oggi i più deboli negli stati sia poveri sia ricchi.
Ci sono 26 milioni di bambini a rischio povertà in questa magnifica Europa dei Trattati di Roma che le celebrazioni di domani renderanno lustre, linda, perfetta, da adorare quasi. Solo in Italia la percentuale dei bambini che rischiano di vivere sotto standard di vita di mera sopravvivenza arriva al 32% della popolazione infantile dello Stivale.
Praticamente 1 adolescente su 5 nel Vecchio Continente è quasi al di sotto di questa asticella della miseria.
Non la definirei proprio una grande vittoria né di princìpi e né tanto meno di grandi acrobazie di giochi di una economia che immiserisce – come da copione – sempre più masse di popoli e arricchisce sempre i soliti speculatori (anzi… sempre meno… visto che la concentrazione mondiale della ricchezza si riduce a vista d’occhio ogni anno…).
Dunque, brindiamo alla critica e alla rivolta contro i Trattati di Roma, contro questa Europa che possiamo cambiare capovolgendola. Non riformandola. Semplicemente capovolgendola. Come, del resto, tutto questo mondo capitalistico andrebbe serenamente capovolto.
Qualcuno per strada canterà come “L’uomo col megafono”: “Compagni, amici, uniamo le voci, giustizia, progresso. Adesso. Adesso”… lo prenderanno per un sognatore ma almeno non avrà mai mandato aerei a bombardare il Mali o l’Iraq o la Siria… lo prenderanno per “l’ultimo dei Mohicani”, ma tra i tanti è sempre l’ultimo che rimane nella storia, nella memoria e il ricordo si ripete e qualcuno prima o poi lo fa proprio.
Nelle sale dei palazzi istituzionali i protocolli imporranno anche ai più critici l’osservanza delle procedure di celebrazione dei Trattati di Roma. La televisione farà i suoi “speciali”.
Non cambiate canale. Spegnetela e se potete scendete a Roma a dire NO, come il 4 dicembre: per difendere i più deboli, per aiutare chi non ce la fa, chi è ogni giorno sfruttato e, anche se non lo sa, qualcuno al suo fianco lo ha. Sempre.
MARCO SFERINI
24 marzo 2017
foto tratta da Pixabay