La Banca Centrale Europea (Bce) ha impresso un ritmo più moderato al rialzo dei tassi d’interesse, pari allo 0,25%, dopo tre grandi aumenti consecutivi dello 0,50%. Quello deciso ieri a Francoforte è il sesto aumento dal luglio del 2022, ma non sarà una pausa nella politica rialzista. Già a giugno è previsto un altro aumento.
Una politica simile risponde al tentativo di rallentare la crescita dell’inflazione giunta al 7% su base tendenziale nell’Eurozona (all’8,3 in Italia) e di riportarla al 2% previsto dal mandato dell’Eurotower a Francoforte.
Recentemente la Bce ha scritto in un bollettino economico di prevedere un simile esito, probabilmente, entro il 2025. Se così fosse, allora nei prossimi due anni permarrà sia il rischio di creare crisi economiche e finanziarie, sia la realtà del lavoro povero e dei bassi salari. «C’è ancora terreno da coprire prima di riportare l’inflazione al 2%» si è limitata a dire ieri la presidente della Bce Christine Lagarde.
Dopo la Federal Reserve (Fed) statunitense anche la Bce sta facendo pagare doppiamente l’inflazione ai cittadini europei. Quando faranno la spesa, ad esempio, o pagano i mutui, senza contare gli interessi sul debito pubblico che impongono una stretta progressiva alle politiche di austerità dei governi, a cominciare da quello italiano che nei prossimi mesi sarà impegnato nella discussione sulle nuove regole del «Patto di stabilità e crescita».
Quanto ai salari tenderanno a restare stagnanti e gli aumenti saranno poco più che nominali e non reali. Una realtà visibile in Italia dove manca una richiesta massiccia e coordinata di aumenti salariali, diversamente da quanto sta avvenendo ad esempio in Germania o in Inghilterra, per restare in Europa.
Lagarde è cosciente del problema. ieri, durante la conferenza stampa, si è soffermata sul salasso a cui sono sottoposti coloro che stanno pagando interessi extra sui mutui alle loro banche. «Le famiglie stanno soffrendo a causa dei rialzi dei tassi e dei rimborsi – ha detto- Purtroppo non è qualcosa che possiamo alleviare perché il nostro compito è la stabilità dei prezzi e per ridurre l’inflazione c’è lo strumento dei tassi che dobbiamo usare». Una dichiarazione programmatica.
Dopo la lunga stagione dell’allentamento quantitativo e dei tassi in negativo, che ha segnato la celebrità di Mario Draghi poi messo a capo di un governo fallimentare in Italia, il nuovo ciclo monetarista prevede un brusco rialzo dei tassi affinché non servano più tassi ancora alti.
Il paradosso può essere riassunto in questo modo: la crisi va fatta pagare ora ai lavoratori per evitare che siano i profitti delle imprese, grandi assenti in questo ragionamento, a pagarla finalmente, e veramente, domani. È una delle conseguenze della lettura di classe data alla policrisi capitalistica iniziata con la pandemia del Covid nel 2020, continuata con la speculazione sui prezzi delle materie prime energetiche ed alimentari nel 2021, proseguite durante la guerra russo-ucraina dal 2022.
Il boom dell’inflazione non è stato inteso come l’effetto di una spirale tra prezzi e profitti, causata dall’accumulazione dei giganteschi profitti accumulati nel frattempo, ma per evitare una fantomatica e inesistente spirale tra i salari e i prezzi. È una lotta preventiva alla richiesta di aumenti salariali e a una repressione per via monetaria – dunque con la sacralità dei numeri elaborati dalla tecnocrazia bancaria – delle lotte di classe.
A conferma che i banchieri centrali vanno avanti alla cieca si può leggere l’intervista rilasciata il 25 aprile a Le Monde dal capo-economista della Bce Philip Lane. «C’è molta incertezza sull’impatto di questa politica, se porterà a un atterraggio morbido per l’economia globale o se c’è il rischio che si traduca in un declino della performance economica» ha detto Lane.
A proposito della tenuta del mercato del lavoro, basato su una precarietà strutturale, Lane ha osservato che dipenderebbe sia dal «forte ritorno dell’immigrazione nell’area dell’euro» che fornisce «manodopera a tutte le industrie che devono far fronte a carenze di manodopera», sia «dallo sviluppo della smart working». Entrambi i fattori permetterebbero di avere «un mercato del lavoro forte senza necessariamente un surriscaldamento della pressione salariale».
Una conferma, a rovescio, del fatto che non esiste una lotta salariale contro la repressione monetarista senza una per l’autonomia, contro il razzismo e il tentativo di ridurre a braccia da lavoro chi non ha la cittadinanza.
ROBERTO CICCARELLI
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