Tagliarsi braccia, ginocchia, altre parti del corpo per uno strano, apparentemente incomprensibile “gioco” che è una trappola psicologica, psicotica, ossessivo compulsiva. Un autolesionismo che è fatto di cinquanta tappe: alla fine c’è la prova “massima”, il suicidio.
Questa, la cosiddetta “Blue Whale” (“Balena blu”), è una sorta di sfida che molti ragazzi stanno impiegando sui loro corpi, affidandosi a quello che chiamano “tutor”, ossia un anonimo che dirige il percorso delle “prove” fino all’estrema conseguenza.
Tralascio altre considerazioni psicologiche: non mi spettano. Non ho la capacità di entrare così a fondo nel contorcimento dell’animo umano che, evidentemente, però soffre molto.
Sono giovani vite che non trovano nella vita passioni, idee e ideali sui quali depositare il senso di una esistenza: sia esso dipingere, sia esso abbracciare la musica come espressione di sentimenti, di emozioni, sia esso qualunque altra manifestazione culturale, anche politica.
Pochi giorni fa riflettevo proprio sul fatto che i giovani non sembrano più avere voglia di rovesciare il mondo; non hanno quella voglia rivoluzionaria che invece animava molti nostri cuori, di noi quarantenni vissuti a cavallo tra la fine degli anni “nati dal fracasso” (gli anni ’70) e la fine presunta delle “ideologie”.
L’autolesionismo è, ho sempre sentito spiegare dagli esperti di introspezione della psiche umana, un gesto per attirare l’attenzione su di sé, attraverso un disagio evidente, non trascurabile.
Ecco, non trascuriamolo, perché è davvero impressionante il vuoto che questa società crea attorno alla speranza giovanile di una vita ricca di significato nel micromondo terrestre.
(m.s.)
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