Kursk e Donbass, l’illusione della guerra di movimento

Nel Donbass, tra le alture di Azov e quelle del Donec, si trova uno dei bacini carboniferi più ricchi del continente europeo. Anzi, probabilmente, il più interessante dal punto...

Nel Donbass, tra le alture di Azov e quelle del Donec, si trova uno dei bacini carboniferi più ricchi del continente europeo. Anzi, probabilmente, il più interessante dal punto di vista estrattivo e, quindi, di rilevanza economica per qualunque potenza vi metta le mani sopra. La guerra d’Ucraina non è mai stata veramente soltanto una guerra patriottica al di qua e al di là dei vecchi confini oltrepassati da Mosca e ripretesi da Kiev.

A partire dalla riannessione della Crimea alla madrepatria, l’intento è anche – e forse soprattutto – stato quello di riprendersi il controllo del Mar Nero sul fronte meridionale e delle regioni russofone proiettate verso un ovest considerato da sempre parte del vecchio impero russo prima e dell’Unione Sovietica poi. La Comunità degli Stati Indipendenti non è mai veramente stata, nemmeno lontanamente, un qualcosa di vagamente simile all’Unione Europea.

Il tentativo, fatto dopo la caduta dell’URSS, di non separare gli Stati ex socialisti e di radunarli, sotto l’egida della Russia, in una nuova alleanza politica, sociale ed economica, è franato nel momento in cui proprio Mosca ha assunto un ruolo dominante e non soltanto più preponderante rispetto al passato. Dalla condivisione dei ruoli, seppure nella sproporzione oggettiva tra la grande madre e i suoi figli ai confini dall’Asia all’Europa, il passaggio al tentativo egemonico è stato breve.

Si era allora nella fase di transizione dal bipolarismo della Guerra fredda al singolarismo imperialista statunitense. Poi, dopo trent’anni, il quadro geopolitico è andato cambiando: soprattutto per l’emersione della potenza cinese, per il progetto nordatlantico di espandersi sempre più ad est e per il rafforzamento nuclearista di una serie di Stati apertamente ostili a Washington e molto più amici di Putin e della logica oligarchica del potere.

La guerra d’Ucraina è, se vogliamo provare a tracciare una linea del tempo che dia un minimo di senso a tutto questo, è il punto di svolta del multipolarismo in EurAsia e, nello specifico, nella tangenza tra Russia ed Unione Europea. Quindi tra Est ed Ovest, tra mondo alternativo alla Repubblica stellata e la stessa in pieno rivolgimento politico, in piena mutazione anche economica e finanziaria. La lunghezza temporale del conflitto non fa che mostrare e dimostrare le difficoltà non tanto di Kiev, quanto semmai degli alleati occidentali nel fronteggiare la potenza russa.

Sottovalutata e pensata come un gigante dai piedi di argilla, la Russia di Putin ha invece incassato i contraccolpi dei pacchetti di sanzioni, ha rafforzato la sua economia, fa fronte al ricambio delle truppe al fronte e, sebbene l’offensiva nel Kursk possa apparire come un successo delle forze armate ucraine e dell’Occidente, alla fine si sta rivelando una trappola che indebolisce l’esercito di Kiev e non frena l’avanzata in Donbass di quello di Mosca.

Il rimpasto di governo voluto da Volodymyr Zelens’kyj come può essere altrimenti letto se non segno di una crisi interna tra le varie fazioni in lotta per una egemonizzazione del conflitto entro i confini della politica medesima ma anche nel confronto tra questa e gli alti comandi militari? Questo avvicendamento avviene proprio nel momento in cui gli attacchi russi, in risposta alle offensive e ai tentativi di penetrazione nell’oblast di Belgorod, si fanno più intensi e distruggono oltre la metà della potenza energetica ucraina.

I droni di Kiev potranno anche andare in profondità nel territorio di Mosca, ma le risposte di Putin saranno sempre sproporzionate rispetto agli attacchi portati dagli uomini e dai mezzi ottenuti da Zelens’kyj. Non è un mistero che la campagna di arruolamento sia uno dei punti più deboli della tenuta militare ucraina e che, invece, i russi abbiano forze fresche e nuove da impiegare tanto nel Donbass quanto nelle regioni in cui le truppe di Kiev sono penetrate per alcune decine di chilometri. Truppe provenienti dall’exclave di Kaliningrad, dalla vecchia Königsberg kantiana.

Proprio l’ormai famosa offensiva del Kursk assume sempre più i contorni del tentativo disperato di spostare l’attenzione (e anche un bel po’ di truppe) dagli oblast ucraini occupati da Mosca, per tentare di dimostrare che, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, è questa la prima volta in cui il territorio russo viene invaso. Il senso delle proporzioni bisogna pure però averlo: se si osserva una cartina geopolitica, o anche soltanto geografica, ci si renderà conto dell’irrilevanza di questa “invasione“.

Ma il punto ancora più dirimente sta nel fatto che il governo di Zelens’kyj, ed il presidente ucraino per primo, sono e restano persuasi che non si possa arrivare ad una soluzione della guerra se non con la completa vittoria dell’Ucraina. Ciò vuol dire, ovviamente, sconfiggere militarmente la Russia e, non di meno, isolarla mondialmente dal contesto tanto del diritto internazionale quanto della stessa politica mondiale. Se la prima ipotesi è francamente incredibile (nel senso che proprio è difficile, se non impossibile da credere), la seconda è altamente improbabile.

In tutta oggettività, gli ucraini hanno superato la linea rossa, la linea immaginaria di una guerra che si pensava ormai di posizione; lo hanno fatto proprio muovendo l’attacco alla regione di Kursk ma, nel farlo, hanno provocato una reazione rabbiosa del governo del Cremlino che ha lanciato attacchi su vasta scala su tutto il territorio dell’ex nazione sorella, colpendo Leopoli, colpendo Kiev, colpendo un po’ tutte le principali città.

Ciò che diviene abbastanza evidente è la modalità di reazione, di punto e contrappunto: là dove Zelens’kyj prova a forzare, Putin forza tre volte tanto e quindi l’asimmetria del conflitto rimane confermata pur non facendo esclusivo riferimento alla rappresentazione dello stesso come guerra quasi da trincea di primo Novecento. Soprattutto nel Donesk, le truppe russe avanzano e, sebbene una parte sia stata spostata sul fronte del nord-est, non si registrano cedimenti sulla linea.

Il rimpasto di governo a Kiev parla al mondo di una crisi interna ad un regime presentato come essenza della democrazia, rispetto all’oligarchismo autoritario putiniano, e che invece è sempre più la quintessenza di uno Stato cuscinetto dell’Occidente e della NATO tra Europa e Russia. Autorevoli commentatori anche ucraini hanno denunciato l’ostinazione di Zelens’kyj a continuare una guerra le cui sorti sembrano davvero destinate a peggiorare e, sempre più sul lunghissimo periodo, ad essere favorevoli per Putin.

L’asserzione per cui è stata l’Alleanza atlantica a provocare la guerra diventa, così, giorno dopo giorno non una provocazione dialettica nel contesto del dibattito politico televisivo, per fare più ascolti e spararla (è proprio il tragico caso di dirlo…) più grossa, ma la cruda realtà storica di fatti che confermano la volontà occidentale di espandersi imperialisticamente verso Est per ristabilire un bipolarismo mondiale tra USA e Cina in cui comprimere gli interessi di paesi terzi come la Russia, l’Iran, persino la Turchia.

Una carta geopolitica che riepilogasse oggi i fatti in questione, potrebbe evidenziare il ruolo di avanguardia russa che Mosca vuole assegnare ad una Ucraina incuneata tra Bielorussia, Russia stessa e, più ad Ovest dal presidio transnistriano. Non scordiamo poi che, nei Balcani, la storica alleanza ed amicizia tra il Cremlino e Belgrado è tutt’altro che obliabile in un contesto di espansione ulteriore (e non certo auspicabile!) del conflitto.

Se i confini moderni ed attuali della NATO rimerrebbero a ridosso dell’orso russo negli Stati baltici, in Polonia e in Romania, è abbastanza evidente che un accordo postbellico con Kiev che garantisse la neutralità dell’Ucraina e l’uscita di ogni elemento dell’Alleanza atlantica dal suo territorio sarebbe già una vittoria per Putin. Di più ancora se, poi, i territori conquistati rimanessero in mano sua. Di contro, nei piani occidentali la funzione invece anti-russa dell’Ucraina conferma i piani geo-politico-militari (ed economici) di un imperialismo che si scontra contro un altro imperialismo.

L’offensiva nell’oblast di Kursk quindi ha una relativa importanza e tuttavia non va minimizzata. Non perché si possa ritenere che le truppe di Kiev possano penetrare chissà quanto nel territorio russo; semmai perché ha un valore simbolico che, tuttavia, col passare del tempo si esaurisce e la crisi del governo di Zelens’kyj, fatta passare per un avvicendamento di ministri necessario, per avere nuova linfa nell’esecutivo, nuove energie, lo dimostra ampiamente.

Tutto dipende da come si vede la guerra: se vista dal punto di osservazione di chi la vuole perpetuare o da quello di chi la vuole invece fermare, quanto meno ridimensionare per arrivare ad un cessate il fuoco che permetta di studiare davvero una strategia di uscita da un cul-de-sac che un po’ tutti i conflitti, se non hanno una risoluzione proprio grazie alla enorme sproporzione delle forze in campo, generano nel momento in cui lo stallo è la migliore delle tattiche da adottare in vista di un logoramento del nemico che, a ben vedere, qui si scorge soltanto dal lato ucraino.

L’illusione della riscossa di Kiev può essere un’ottima arma (il linguaggio bellico viene spontaneo quando si parla di guerra…) della propaganda occidentale per tentare ancora una volta la dimostrazione del teorema del confronto tra mondo libero e democratico e mondo tirannico e dittatoriale. In realtà lo scontro è tra due grandi agglomerati di potere che non hanno a cuore le sorti della maggioranza della povera gente che abita quei paesi, di una povertà crescente causata anche dall’economia di guerra.

Può sembrare retorica, perché nella dialettica bellica quando si parla di pace si viene tacciati inevitabilmente per sognatori romantici e illusi dal cuore un po’ infantile, ma non c’è nessun’altra via d’uscita se non la trattativa, la diplomazia che, al momento, non è nell’interesse finanziario, economico, bellico e politico di nessuno dei governi che stanno facendo la guerra. Il preuspposto ideologico di una narrativa antiputiniana come elemento di caratura etica del tasso di democraticità dei governi occidentali, è tanto falso quanto ipocrita.

Chi si spende per una opzione pacifista non è un disincantato, trasognante utopista ma, invece, il più realista tra i realisti: colui che vede molto bene le forze in campo e i motivi che le fanno rimanere in quel frangente omicidiario di massa. Non si può attendere la mutevolezza di questi interessi dicotomici per vedere finire la guerra. L’autunno che sta per iniziare deve poter vedere riconsiderata la proposta di uno sciopero generale europeo contro la guerra. Uno sciopero prolungato, una forma di opposizione sociale netta.

Un sollevamento di massa che confermi ciò che i sondaggi dicono: che, ad esempio in Italia, l’ottanta percento dei cittadini è contro la guerra, contro l’invio delle armi, contro il riarmo, contro il prolungamento delle sofferenze dei popoli costretti a subire questi scontri di potere imperialista. Lavorare in questa direzione è necessario, ed è il rispondere con coerenza alle domande che ci facciamo su come intervenire per mettere i bastoni fra le ruote dell’ingranaggio criminale messo in moto nel nome della democrazia da un lato e nel nome del nazionalismo dall’altro.

MARCO SFERINI

5 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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