Kissinger detestava il disordine. Non solo perché era tedesco e quindi lo infastidivano le salsicce senza crauti o il vino rosso col pesce ma anche perché la sua formazione culturale e politica lo esigeva: la tesi di dottorato l’aveva scritta su Metternich, il cancelliere austriaco della Restaurazione. Il problema che lo ossessionava era come rendere stabile l’assetto delle relazioni internazionali e a questo si è dedicato per 70 anni.
Ha potuto farlo non perché il suo cervello fosse “portentoso” né la sua vita “inimitabile” (ieri, sui siti dei giornali italiani le sciocchezze si sprecavano) ma perché il suo immenso potere sulla politica estera americana veniva dalla fiducia del presidente che lo aveva scelto, Richard Nixon. Una fiducia rafforzata dall’opportunismo di Kissinger e dal fatto che era l’unico ad avere un’idea chiara di come, negli anni post-1968, gli Stati uniti potessero restare la potenza egemone sul pianeta.
L’idea era in due parti. Primo: gli imperi devono avere tranquillità all’interno, ragion per cui occorreva metter fine alla guerra nel Vietnam, Cambogia e Laos, che stava provocando le rivolte giovanili negli Stati uniti. Secondo: gli imperi hanno bisogno di un ordine internazionale e l’ordine dipende da una certa distribuzione (equilibrata) della forza ma anche dalla legittimità, per cui quell’assetto deve risultare accettabile ai suoi protagonisti come Unione sovietica e Cina. Secondo Kissinger, tutti gli stati che hanno forza sufficiente per contare devono essere inclusi nell’ordine internazionale.
Sul primo punto le cose sono chiare: Kissinger è stato un criminale di guerra. I bombardamenti su Cambogia e Nord Vietnam non lasciano spazio a interpretazioni diverse, né ci sono dubbi sul fatto che migliaia e migliaia di giovani americani sono morti nelle risaie solo per ottenere un “decente intervallo” tra l’inevitabile partenza dei marines e la dissoluzione del governo fantoccio del Sud Vietnam, il 25 aprile 1975.
Il cinismo diede però i suoi frutti: il fronte pacifista si indebolì, nel 1972 Nixon venne rieletto, ci furono gli accordi per una riduzione delle armi nucleari con l’Urss e l’avvio del dialogo con la Cina. Kissinger sopravvisse senza problemi allo scandalo Watergate e alle dimissioni di Nixon, facendosi prontamente nominare Segretario di Stato dall’amministrazione Ford.
Questi risultati corrispondevano perfettamente alla sua idea di ordine mondiale: un assetto dove solo le grandi potenze devono prendere le decisioni mentre i “piccoli” devono allinearsi. Le iniziative estemporanee o gli accidenti della storia, come la guerra del Kippur in Medio oriente e l’elezione di Allende in Cile, lo disturbavano profondamente e fece del suo meglio per cancellarli.
In cambio della legittimità loro accordata, Cina e Russia dovevano fare la loro parte, tenendo a freno alleati o simpatizzanti e magari contribuendo alla prosperità del capitalismo americano. Kissinger non era un economista ma di sicuro non gli sfuggiva quanto sarebbe stato vantaggioso per le multinazionali americane un mercato mondiale con un miliardo e mezzo di proletari in più su cui contare, una vera manna che è durata praticamente fino ad oggi.
Oggi, però, il secolo di Kissinger è chiuso, e non per la sua morte fisica bensì per l’inizio di una fase del capitalismo mondiale molto diversa da quella in cui ha operato lui fra il 1969 e il 1977. Una fase non di equilibrio delle potenze ma di caos sistemico. Un’epoca in cui la guerra tra i “grandi” è ridiventata non solo pensabile ma anche concretamente possibile. Un periodo in cui molte delle situazioni che Kissinger aveva cercato faticosamente di tenere sotto controllo, per esempio la Palestina e Taiwan, sono esplose, o rischiano di farlo a breve.
Il caos sistemico è frutto non dell’incompetenza dei governanti americani, anche se questa è una realtà, ma di una fase diversa del capitalismo, in cui il suo aspetto predatorio e la sua capacità di asservire, o ignorare, i sistemi politici nazionali sono al massimo. Il sogno di Kissinger era una versione moderna del concerto delle potenze, un Congresso di Vienna del 1815 trasportato nel XX secolo e magari anche nel XXI: un progetto lontano anni luce dalla realtà di oggi.
In un certo senso, il grande diplomatico ha “scelto” di andarsene prima di accorgersi di avere fallito e di non poter rimediare dando buoni consigli a Joe Biden o a Xi Jinping. Era un uomo che guardava all’indietro e lo sfilacciamento dell’assetto politico americano, l’impotenza degli stati di fronte a tecnofeudatari come Elon Musk e Jeff Bezos, l’aggressività di ex vassalli come Turchia e Arabia saudita non potevano certo piacergli.
FABRIZIO TONELLO
foto: screenshot ed elaborazione propria