Il Lagersprache era il sinistro nome della lingua parlata nei lager nazisti. Un misto tra il tedesco delle SS e le tante lingue dei prigionieri che in qualche modo provavano a parlare tra loro. Una lingua dell’inferno con parole inquietanti e indimenticabili come Aso, riferito ai prigionieri asociali che venivano contrassegnati da un triangolo nero, Muselmann che altri non erano che gli internati dai corpi scheletrici, divenuti tristemente simbolo di quell’orrore.
Ma forse la più usata e terrificante era l’abbreviazione delle parole tedesche Kamarad e Polizie, i famigerati Kapo, o Kapò, i detenuti incaricati di comandare sugli altri prigionieri. Generalmente erano condannati per reati comuni e rendevano ancor più dura la vita ai deportati politici e agli ebrei. Sull’orrore che chiamava altro orrore Gillo Pontecorvo sviluppò il suo Kapò.
Quinto di otto figli di un ricco imprenditore ebreo del tessile, Gilberto Pontecorvo, per tutti Gillo, nacque a Pisa il 19 novembre 1919. Dopo un percorso scolastico turbolento, a seguito delle leggi razziali seguì il fratello Bruno, poi stimato fisico, a Parigi.
Nella capitale francese frequentò altri esuli italiani e entrò in contatto col mondo culturale, non disdegnando il tennis, sua grande passione. Cominciò, inoltre, a lavorare per l’Havas (attuale Agence France Press). Ma a Parigi Gillo Pontecorvo conobbe anche il comunismo e, nel 1941, una volta rientrato in Italia si iscrisse al Partito Comunista Italiano, all’epoca clandestino, e partecipò alla Resistenza in Piemonte e Lombardia col nome di battaglia Barnaba.
Finita la guerra divenne corrispondente parigino per diversi quotidiani, direttore di “Pattuglia”, il settimanale della gioventù socialista e comunista d’Europa e, affascinato da Paisà (1946) di Roberto Rossellini, si avvicinò al cinema.
Dopo un piccolo ruolo, quello di un operaio fucilato nel film Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, prodotto dall’ANPI, Gillo Pontecorvo fu aiuto regista Les miracles n’ont lieu qu’une fois (I miracoli non si ripetono, 1951) di Yves Allégret. Quindi, dopo aver comprato una cinepresa 16mm girò diversi documentari a sfondo sociale: Missione Timiriazev (1953), Cani dietro le sbarre (1954), Porta Portese (1954), Pane e zolfo (1956), quest’ultimo sui minatori marchigiani commissionato dalla Camera del Lavoro di Ancona.
Il suo primo film a soggetto fu Giovanna, episodio di Die Windrose (La rosa dei venti, 1957), film collettivo curato da Joris Ivens sul ruolo della donna nella lotta sociale. La pellicola diretta da Pontecorvo racconta la storia di un’operaia del tessile che, disobbedendo al marito e rischiando il posto di lavoro, sciopera in sostegno delle colleghe licenziate.
L’interesse della collettività che prevale su quella del singolo tornò anche nel primo lungometraggio del regista La grande strada azzurra (1957) in cui un pescatore di frodo che pesca con le bombe, Squarciò (Yves Montand), in punto di morte capisce di aver isolato la moglie Rosetta (Alida Valli) e i figli, ed elogia la costituzione di una cooperativa di pescatori.
Il film, premiato al Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary, era tratto dal romanzo “Squarciò” di Franco Solinas (Cagliari, 19 gennaio 1927 – Fregene, 14 settembre 1982) col quale Gillo Pontecorvo iniziò una proficua collaborazione. I due, infatti, partendo dalla lettura di “Se questo è un uomo” di Primo Levi iniziarono a scrivere una sceneggiatura sulla figura dei kapò.
Dopo diversi problemi sul cast, inizialmente venne ipotizzata Claudia Cardinale, poi “scartata” perché troppo bella, e alcuni contrasti sulla sceneggiatura, sia per l’inserimento di una storia d’amore, sia per il finale, ricomposti solo grazie all’intervento del produttore Franco Cristaldi, il 29 settembre 1960 uscì Kapò.
Edith (Susan Strasberg), una giovane ragazza ebrea, viene deportata in un lager nazista. Dopo aver visto uccidere i genitori, accetta la proposta di un medico del campo, e finge di essere la detenuta semplice Nicole Niepas appena morta. Tra le sofferenze del campo, nonostante il supporto di Sofia (Didi Perego, premiata col Nastro d’argento) e Terese (Emmanuelle Riva), Edith passa progressivamente dall’essere una vittima a una carnefice, conquistando la fiducia dei nazisti e diventando una “kapò”.
Le altre prigioniere la odiano, le uccideranno anche il gatto, Terese preferirà lanciarsi e morire sul filo spinato, ma quando nel campo giunge un gruppo di prigionieri di guerra russi, l’amore ricambiato verso uno di loro, Sascha (Laurent Terzieff), la porta al riscatto. Edith si sacrificherà, infatti, per favorire una fuga di massa.
Un dramma importante, girato con elementi quasi documentaristici, ottenuti grazie ad un prezioso lavoro sui negativi originali, che nonostante l’inserimento forzato della storia d’amore, voluta da Solanas e criticata dallo stesso Pontecorvo, ebbe il merito di mostrare per la prima volta sullo schermo italiano la tragedia della Shoah (altri film avevano trattato il tema delle persecuzioni senza mostrare un campo di concentramento) e trattare un argomento spesso rimosso capace di raccontare “come la paura e la miseria rendano le persone criminali” (Mereghetti).
Kapò venne candidato all’Oscar come miglior film in lingua straniera, ma a livello internazionale è forse più nota la polemica animata dal critico dei “Cahiers du cinéma” Jacques Rivette che definì “abietto” il tentativo di rendere spettacolare qualcosa di indicibile come la morte, nello specifico il carrello usato per descrivere il suicidio di Emmanuelle Riva.
Negli anni successivi Gillo Pontecorvo realizzò, sempre con Franco Solinas, il suo capolavoro La battaglia di Algeri, ma ancora oggi Kapò è da guardare, per non dimenticare e per dire mai più.
redazionale
Bibliografia
“Enciclopedia Rizzoli Larousse”
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2023” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
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