Vittoria a metà nel caso Assange, dopo la decisione della corte inglese di non estradare il fondatore di WikiLeaks negli Stati Uniti per questioni legate alla sua sanità mentale.
La sentenza, infatti, da un lato salvaguarda le condizioni mentali e fisiche di Julian Assange (per quanto ancora rinchiuso in un carcere inglese) e evita il trasferimento in un penitenziario di massima sicurezza americana, ma dall’altro segnala la sconfitta per le tesi difensive, che miravano a controbattere alle pesanti accuse americane, inserendo le attività del loro assistito all’interno dell’attività giornalistica investigativa, quale era, come dimostrato dalla solidarietà di gran parte del mondo mediatico che, grazie ai documenti rivelati da Assange, ha potuto pubblicare e rendere noti a tutti alcune delle atrocità commesse dagli Usa, e non solo.
L’udienza che si è svolta ieri a Londra, nella quale il 49enne hacker finlandese rischiava di vedersi estradato negli Usa con l’accusa, tra le altre, di spionaggio (con il rischio di un totale di 175 anni di condanna), era infatti fondamentale non solo per la vita di Assange, ma in generale per tutto il giornalismo investigativo.
Il caso si riferisce alla pubblicazione da parte di WikiLeaks di migliaia di documenti trapelati sulla guerra afghana degli Usa, insieme ai cables delle ambasciate: materiale rilasciato e pubblicato sui principali quotidiani del mondo tra il 2010 e il 2011.
Secondo l’accusa americana, Assange avrebbe aiutato Chelsea Manning, analista della difesa statunitense a violare l’Espionage Act (utilizzato non a caso anche quando negli Usa uscirono i Pentagon Papers, sulle malefatte americane in Vietnam; i documenti furono rivelati da Daniel Ellsberg e poi pubblicati da New York Times e Washington Post nel 1971).
Assange sarebbe stato, secondo i procuratori Usa, complice nell’hacking di Manning. Ma come ha più volte sostenuto la difesa dell’australiano, non si trattò di hacking. L’accusa infatti è per lo più politica: WikiLeaks svelò al mondo le efferatezze compiute dall’esercito americano in Afghanistan (compreso l’omicidio di due reporter di Reuters), è questo a risultare inaccettabile per Washington.
Come ha scritto Valigia Blu, «Manning fu poi accusata e condannata a 35 anni di reclusione nel 2013 per aver violato l’Espionage Act e per altri reati. La sentenza è stata commutata nel 2017, quando l’allora presidente uscente Barack Obama decise di concedere la grazia all’ex militare».
Nel 2013 l’amministrazione Obama era giunta alla conclusione «che non avrebbe mai potuto accusare Julian Assange di crimini relativi alla pubblicazione di documenti classificati senza criminalizzare il giornalismo investigativo». Nel 2019, però, l’amministrazione Trump ha aggiunto a tutti i capi di imputazione (17) anche quello di spionaggio.
Nel negare l’estradizione la giudice ha motivato la decisione sulla base di «preoccupazioni sul suo stato mentale». Secondo Baraitser i ripetuti episodi di autolesionismo e pensieri suicidi espressi da Assange nel suo periodo di detenzione inglese, nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, renderebbero «opprimente» il suo trasferimento negli Usa dove Assange rischierebbe anche di compiere gesti autolesionisti, suicidio compreso.
In settimana la difesa di Assange chiederà la sua libertà su cauzione, ma sulla vicenda pesa il quasi certo ricorso americano: il portavoce del dipartimento di Giustizia Usa, Marc Raimondi, ha infatti specificato che «sebbene siamo estremamente delusi dalla decisione, siamo lieti che gli Usa abbiano prevalso su ogni questione di diritto sollevata. In particolare, la corte ha respinto tutti gli argomenti del signor Assange riguardanti la motivazione politica. Continueremo a chiedere la sua estradizione».
Nella serata di ieri dal Messico e dal suo presidente Lopez Obrador è arrivata una nuova possibilità: «Chiederemo al governo britannico il rilascio di Assange, il Messico gli offra asilo politico», ha detto Obrador in una conferenza stampa.
SIMONE PIERANNI
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