Julian Assange è finalmente libero. Di lasciare il carcere di Belmarsh, nei pressi di Londra, definito la “Guantanamo britannica“, e di tornare nella sua Australia. Perseguitato dal 2010 per la sua attività di giornalista che, tramite il sito WikiLeaks, ha rivelato al mondo i crimini di guerra di molti paesi, per primi quelli degli Stati Uniti d’America nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, Assange è stato cinque anni nelle carceri di Sua Maestà in una sorta di detenzione preventiva che fuoriusciva da qualunque tipologia del diritto internazionale.
Suo malgrado, è divenuto il punto di incontro di interessi spionistici diversissimi. Del resto l’attività di WikiLeaks non lasciava scampo da questo punto di vista. La denuncia dei crimini dei governi e dei militari al loro servizio in tanti conflitti regionali e più propriamente globali, ha dato adito ad ogni paese che veniva messo sotto questa lente di ingrandimento di operare una ritorsione sul piano giuridico per poter processare Assange e metterlo definitivamente a tacere.
Nel corso della sua attività, il sito di inchiesta, informazione e denuncia più temuto al mondo, è divenuto il partner delle più importanti testate giornalistiche di paesi tanto occidentali quanto del resto del pianeta. Senza Julian Assange, così come senza Edward Snowden, non saremmo mai venuti a conoscenza di tutta una serie di iniziative e di atti criminosi che sono stati il nerbo delle amministrazioni tanto democratiche quanto repubblicane in una America che non ha smesso di vivere della sua contraddizione tra formale rispetto dei diritti civili ed umani e nella pratica la loro violazione sistematica.
Per questo Assange è divenuto, durante tutti questi anni di indagini contro lui, di arresti e di carcerazione senza soluzione di continuità per oltre millenovecento giorni, una icona di libertà: tanto dell’informazione quanto di una politica che non può sentirsi al sicuro, inattaccabile, insindacabile, impunibile dai suoi stessi giudici così come dal popolo che, se si vive in un regime democratico, è alla fine l’ultimo sovrano decisore sulla permanenza al governo di un paese di questo o quel partito, di questa o quella coalizione di forze.
La destabilizzazione creata dalla diffusione delle notizie secretate ha rappresentato anche una clamorosa evidenza nella fragilità dei sistemi di sicurezza che sono affidati, da sempre, ad una segretezza che pareva impenetrabile e che, invece, è stata violata da una soldatessa e da un tecnico informatico. La prima ha passato migliaia di file sui piani militari a WikiLeaks; il secondo ha svelato una vera e propria rete interna di spionaggio da parte del governo di Washington nei confronti di centinaia di migliaia di suoi cittadini.
Siamo stati un po’ tutti indotti a coprire le videocamere dei nostri computer portatili con un adesivo, con un pezzetto di carta e dello scotch dopo aver visto come era possibile per degli abili informatici al soldo dei governi, così come per degli hacker di tutto punto, spiarci mediante programmi che si introducevano da remoto nei nostri pc e che, quindi, attivavano i sistemi di ripresa, potendo sorvegliare le nostre esistenze, registrando quello che avremmo detto o fatto senza che se ne avesse il benché minimo sentore.
Ci sorprendiamo ancora quando gli algoritmi dei social veicolano la pubblicità più confacente ai nostri interessi, a ciò che visitiamo su Internet, a ciò che comperiamo o a quello che leggiamo o digitiamo più volte nei motori di ricerca. Ma la capacità della tecnologia è molto più sofisticata rispetto a tutto questo. Avvantaggiandosi grazie a queste scoperte in campo comunicativo, il settore militare ha prodotto tutta una serie di dispositivi che hanno mutato il corso dei conflitti e che sono stati i mezzi con cui la ferocia delle repressioni contro le popolazioni civili si è maggiormente scatenata.
Le denunce di Assange hanno avuto questo carattere principale: svelare non tanto quello che già si sapeva, pur non dai canali ufficiali, ma grazie ad inchieste sempre più pericolose e al sacrificio spesso ultimo dei cronisti che le intraprendevano, quanto approfondire gli aspetti meno evidenti, le contorsioni del potere politico con quello militare, le commistioni di interessi sovranazionali che stavano alla base delle guerre più cruente che il governo descriveva e propagandava all’opinione pubblica come le portatrici e le esportatrici del modello democratico a stelle e strisce nel resto del mondo.
Snowden dichiarò, ad esempio, che ciò che lo aveva spinto ad agire non era la volontà di nuocere al proprio paese, bensì l’esatto contrario. Un atto patriottico era proprio quello di svelare tutte le incongruenze che erano risultate evidenti tra l’applicazione della Costituzione degli Stati Uniti d’America e il lavoro dello spionaggio internamente ai confini del “grande paese“. Tanto il lavoro di Assange quanto quello del giovane “wistleblower” consulente della NSA (la “National Security Agency“) ha smentito la narrazione di una guida unipolare del mondo al soldo di una potenza assolutamente democratica.
Se non c’era bisogno delle migliaia di file secretati e scoperti da WikiLeaks, così come delle prove dell’attività di intelligence entro i confini degli Stati Uniti, per avere la certezza delle deliberatamente spregiudicate politiche imperialiste di un opera di governo squisitamente incostituzionale, oltre che immorale e disumana, è ovvio che queste due grandi imprese, che sono costate ad Assange e a Snowden la loro libertà e una vita tranquilla, si sommano all’evidenza dei crimini di guerra, dei campi e delle basi in cui la tortura è stata praticata deliberatamente e sistemicamente.
Ma Assange non si è limitato alla denuncia degli eccessi criminali di guerre e repressioni statunitensi. WikiLeaks ha avuto come missione quella di trovare il massimo di verità possibile ovunque nel mondo: dai conflitti determinati dai complicatissimi interessi delle petromonarchie del mondo arabo alla repressione cinese in Tibet. Dai rapporti opachi del potere in Turchia fino alle questioni concernenti quella porzione di Medio Oriente in cui oggi imperversa la devastante e genocidiaria guerra contro Gaza e contro il popolo palestinese.
Dopo cinque anni di carcerazione, Assange patteggia con la “giustizia” americana ed ottiene la libertà. Non è la conclusione di un calvario, di una vera e propria odissea soltanto giudiziaria: è il principio della riscrittura di una storia che riguarda il giornalista e attivista per la libertà di stampa, di espressione, di critica e di poter dire quindi ciò che è vero là dove la verità diventa, suo malgrado, rivoluzionaria perché tutto intorno regna la mistificazione delle parole, la circonvenzione di una incapacità popolare determinata da una seduzione propagandistica che punta alla creazione del nemico da contrastare.
Dalla minaccia terrorista di Al Qaeda, prodotto delle tattiche americane di destabilizzazione dei già ampi disequilibri mediorientali ed asiatici, fino a quella dello Stato Islamico (emanazione della torsione jihadista dell’istituzionalismo e della società dei paesi arabi del Golfo Persico dopo le guerre inanellate dagli USA dal 1991 a tutto il primo decennio del nuovo millennio), la politica del governo di Washington in direzione esteri è stata improntata ad una ossessione unipolarista, ad un evitamento del ritorno del confronto con più potenze mondiali.
Con tutte le differenze dei rispettivi casi, le amministrazioni americane che si sono succedute dagli anni Novanta del Novecento sino ad oggi non hanno fatto altro, in merito a ciò, se non coprire, depistare, allontanare la popolazione da quelle verità di fatto che, lasciate ad una troppo fervida, fertile e manipolabile immaginazione di massa sono divenute il facile gioco del complottismo di una destra trumpiana che, in questo modo, ha un più facile controllo del consenso degli strati più disagiati tanto delle grandi metropoli quanto dei moltissimi centri rurali di una frontiera di cui non si fede mai la fine.
Le dichiarazioni ultime di Donald Trump vanno in questa direzione: il manifesto dei programmi della futura amministrazione a guida repubblicana è per la maggiore improntato ad una, per ora, teorizzata capacità degli Stati Uniti d’America di “tornare a fare paura“. Alla Cina, all’Iran, ma pure alla Russia di cui l’ex presidente e magnate è certamente più amico rispetto alla totalizzante posizione neoatlantista di Biden e Harris. Assange avrebbe il suo bel da fare in questi frangenti. Ma esce da un incubo durato tre lustri e, nonostante tutto, può dire di essere stato il precursore di un viatico ereditato da molti altri investigatori della verità.
Lo dimostra la campagna globale che ha retto per oltre un decennio e che ha unito associazioni come Amnesty International e grandi personalità della cultura, della musica, dell’arte, della politica e di tante altre comunità sparse per quel mondo che WikiLeaks ha scoperto e fatto scoprire: un sottobosco di relazioni perverse tra governi, servizi segreti, terroristi e gruppi paramilitari. Un malaffare e un malessere delle formali democrazie occidentali e delle oligarchie e dei regimi di molta altra parte del pianeta. Un sistema che si regge su un liberismo che induce direttamente al soverchiamento, alla sopraffazione, al predominio del più forte sul più debole.
Julian Assange è stato per cinque anni, per aver denunciato ciò che i governi non volevano che sapessimo su di loro e sugli sporchi affari che fanno mediante l’apertura dei conflitti nelle regioni socialmente più indigenti della Terra, ma ricche di materie prime da smerciare sulla pelle dei popoli, in una cella di due metri per tre, in completo isolamento per ventitré ore al giorno, lontano dalla sua famiglia, privato della libertà al pari dei terroristi che vengono detenuti nelle prigioni per aver compiuto grandi stragi.
Il prezzo da pagare per essere un giornalista, un editore, un uomo che ha diffuso i documenti della vergogna di Stati che dominano e spadroneggiano impunemente e che chiamano altri a rispondere di delitti contro il patriottismo, mentre sono loro i primi a tradire le ragioni fondanti della loro stessa esistenza. Assange ha pagato proprio questo: l’essere libero e il voler adoperare questa libertà per contagiarne un po’ il mondo, fin troppo assuefatto dalle false notizie governative. La farsa delle ragioni della sua detenzione la si è potuta vedere in tutta la sua interezza al momento del suo secondo arresto.
Quando l’Ecuador, nel cambio di presidenza e di governo, permise nel 2019 al Regno Unito di prelevare Assange con la forza dal suo consolato e portarlo nel carcere di Belmarsh. Al pari dei Rosenberg, ha rischiato una condanna all’ergastolo alla pena di morte negli Stati Uniti con l’accusa di spionaggio. A differenza dei due coniugi, militanti del partito comunista e solo per questo accusati di essere dei traditori della patria, non finirà per fortuna sulla sedia elettrica. Ma la cosiddetta “giustizia” delle democrazie liberali è poi tanto cambiata dai tempi del maccartismo?
Là dove il potere si sente apertamente minacciato nella sua credibilità complessiva, reagisce con la repressione e con l’accanimento tanto politico quanto giudiziario. Ed anche in questo caso, come nella produzione delle guerre a tutela del grande capitalismo e della grande finanza nazionale e internazionale, le democrazie si adornano di un ricorso alla partecipazione elettorale per mostrare di essere davvero una emanazione del “potere popolare“. Ma tutto sono tranne che questo. Tutto sembrano tranne che dei governi che rispettano le proprie costituzioni, i propri saldi princìpi.
MARCO SFERINI
25 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria