Con un breve discorso tenuto ieri mattina davanti a Downing Street, Boris Johnson ha alla fine mollato la presa. Farà il primo ministro ad interim fino all’autunno – secondo lui – per poi farsi subentrare dal nuovo leader eletto dal partito secondo la procedura del 1922 Committee, l’organismo elettivo dei Tories.
Sempre che le incessanti pressioni perché si tolga di mezzo subito – che continuano a provenire anche dai suoi – non si diradino, cosa assai improbabile. Anche il leader dell’opposizione laburista, Keir Starmer lo vorrebbe fuori subito: ha minacciato un voto di sfiducia in parlamento che porti alle elezioni anticipate.
Con il governo falcidiato da oltre cinquanta dimissioni fra ministri, sottosegretari e portaborse, la defenestrazione di Johnson da parte del suo stesso partito è senz’altro il marasma politico più caotico vissuto dal sistema inglese dal Novecento a oggi. Epperò lui intende trascinarsi avanti: ha appena freneticamente riempito alcune delle posizioni dei dimissionari con personaggi provenienti dal sottoscala delle sedi provinciali del partito conservatore, gli unici a dargli ancora retta.
Si asterrà dal prendere decisioni economiche importanti – quelle deve lasciarle al cancelliere dello scacchiere Nadhim Zahawi, lo stesso che gli ha detto di dimettersi a 24 ore dalla sua nomina al posto del frondista Rishi Sunak – e assicurerà la governance del paese.
Se invece cedesse del tutto, potrebbe subentrargli in funzione puramente interinale qualche deputato che non ha ambizioni di premiership, come la predecessora Theresa May. Oppure l’attuale vicepremier, Dominic Raab, laddove questi decidesse – com’è assai probabile – di non avere chance sufficienti come aspirante leader.
Tra i Tory, la procedura elettiva dei candidati a premier passa prima dai parlamentari conservatori e poi dai membri del partito. Un parlamentare deve essere nominato da otto colleghi. Si terranno ballottaggi parlamentari fin quando non si riducano a due contendenti, dopodiché la votazione finale spetta alle poche decine di migliaia di settantenni iscritti al partito.
Johnson è il terzo premier tory a cadere in sei anni. Mai dimissioni furono più tumultuose e repentine: per trovare qualcosa di simile bisogna tornare al 1932, quando i ministri a dimettersi furono undici, nello sciagurato governo MacDonald.
Le dimissioni le ha date da par suo: con una punta di baldanza, senza tradire granché le proprie emozioni. Come se non avesse appena trascorso le 72 ore più convulse della storia politica recente.
Tutt’altra vicenda rispetto ai suoi due predecessori al leggio davanti a Downing Street: l’esterrefatto David Cameron nel 2016 e l’affranta Theresa May tre anni dopo. L’ex leader John Major, veterano remainer della prima ora e suo acerrimo critico, si è unito al coro che lo vuole via subito. Ma sta agli equilibri – o disequilibri – del partito decidere: resterà fino in autunno se i Tories non temono il rischio di perdere le elezioni anticipate.
Johnson ha parlato del meraviglioso «sistema darwiniano» britannico, che produrrà un altro leader. Ha naturalmente rivendicato il ruolo di procacciatore in capo (europeo) di armi alla difesa ucraina e ha difeso il suo «levelling up», un’altra frase fatta, uno slogan che non significa un accidente dietro cui si millanta la volontà di riequilibrare il nord povero e deindustrializzato del paese con il sud ricco e proprietario.
Gia cominciano a palesarsi i possibili successori. In prima linea Liz Truss, Ben Wallace, Rishi Sunak, l’ex attorney general Suella Braverman. In lizza scenderanno probabilmente anche Sajid Javid, lo stesso – ambiziosissimo – Zahawi, forse l’ex-ministro della sanità nel governo May Jeremy Hunt.
Sarà la solita lotta senza esclusione di colpi bassi, come già lui e Gove mostrarono nel 2016. Nulla è più spietato della corsa alla leadership in un partito nato per comandare, dove il potere è tutto.
Chiunque succeda a Johnson si troverà tra le mani un paese irto di problemi: oltre all’inevitabile paralisi di governance, la stagflazione, i rapporti con l’Unione europea ai minimi termini dopo le posture bellicose di Brexit, una situazione tellurica in Irlanda del nord per via del famigerato protocollo e soprattutto una stagione di lotte di cui i prodromi dei recenti scioperi dei ferrotranvieri delle scorse settimane non erano altro che un’avvisaglia.
LEONARDO CLAUSI
Foto di Irene Bersani