Hay’at Tahrir al-Sham era, fino a pochi giorni fa, soprattutto nelle cronache mediorientali dei nostri giornali, delle televisioni e persino dei siti più specializzati in crisi regionali, un nome se non sconosciuto, quanto meno trascurato nella galassia di sigle che pullulano la storia recente dei paesi che affacciano dal Mediterraneo al Golfo persico.
Al disonore delle citate cronache arriva nell’attimo in cui, repentinamente, arriva con le proprie milizie dalle lande del governatorato di Idlib, sua base e sede ormai storica, ad Aleppo e poi ad Hama e, infine, conquista la capitale della Sira, Damasco. Il regime di Bashar al-Assad crolla come un castello di carta: la velocità con cui tutto questo accade soprende i commentatori di mezza stampa e tv.
Come avranno mai fatto questi terroristi, inclusi nella lista nera degli Stati Uniti come tali, ad arrivare al potere? Come è stato possibile che in nemmeno due settimane si siano fatti largo nel convulso pandemonio del ginepraio della guerra civile siriana e, da attori marginali siano diventati invece protagonisti indefessamente indiscussi?
Questa vorrebbe essere la narrazione della sorpresa regalata malignamente al mondo da questo gruppo di jihadisti che si fa Stato, che assume il potere e che, a quanto scrivono i cronisti, lo avrebbero fatto sorprendendo un po’ tutte e tutti. Ma se davvero si conoscesse un po’ più approfonditamente la storia recente della grande questione mediorientale, ci si renderebbe conto, se non immediatamente, quanto meno molto presto che l’irresistibile ascesa di Abū Muḥammad al-Jawlānī non è poi così una improvvisata, un fulmine a ciel sereno.
Il capo di HTS è un militante di lunga data dello jihadismo: è stato in carcere cinque anni, ha alle spalle anche un controverso rapporto con l’ex Stato islamico ed è riuscito, con il sostengo piuttosto congruo e continuativo della Turchia, in duplice funzione offensiva contro i curdi da un lato e contro Assad dall’altro, a scalare i vertici di un processo egemonico militare, politico, amministrativo e persino cultural-sociale nel puzzle siriano.
Nulla nasce dal nulla, nemmeno per i creazionisti. Quindi, tanto meno al-Jawlānī. E tanto meno HTS. Fino a che l’asse dell’impero iraniano era piuttosto forte nell’area, prima del 7 ottobre 2023, prima della ripresa del conflitto tra Israele ed Hamas, contro il popolo palestinese, il trono di al-Assad era precario ma stabile. Il territorio controllato dall’esercito governativo poteva ancora dirsi la maggior parte della Siria centrale e meridionale.
Sacche di resistenza jihadista ex ISIS sparse qua e là nel deserto e ai confini tra le zone controllate dai curdi; una trentina di chilometri a nord occupati dalla Turchia, sempre in funzione anti-PKK (considerato da al-Jawlānī un gruppo terrorista!) e la regione di Idlib amministrata un governo di transizione formato da HTS con alla guida colui che oggi è il nuovo capo del governo siriano: Mohammad al-Bashir.
Questa era la cartina geopolitica della Siria fino a pochi giorni fa, prima che quelli che l’Occidente definisce come “i ribelli“, arrivando a vellicarne le qualità “moderate” rispetto al DAESH, avanzassero senza quasi colpo ferire (le vittime dell’offensiva sono state relativamente poche rispetto ai massacri perpetrati durante l’annosa guerra civile) fin dentro la capitale. Joe Biden si è prontamente distinto nel dichiarare che, sì, questi sono effettivamente degli eredi dei tagliagole del recente passato, ma in fin dei conti ora, testuali parole presidenziali, «stanno facendo la cosa giusta».
Così come non sorprende la sorpresa dei giornali e delle televisioni davanti al successo più politico che militare delle truppe di al-Jawlānī, altrettanto non destano poi così scalpore le dichiarazioni dell’inquilino uscente della Casa Bianca. La Turchia, paese NATO, ha sostenuto HTS in questa operazione di detronizzazione del clan Assad e lo ha fatto nel momento in cui la congiuntura internazionale è stata la più favorevole al doppio interesse comune con gli jihadisti.
La Russia da un lato, l’Iran dall’altro, hanno progressivamente preso le distanze da al-Assad: l’una impegnata prevalentemente sul fronte ucraino; l’altro su quello del sostegno ad Hamas ed Hezbollah nel contemporaneo attacco a Gaza e Libano meridionale. Se, da un lato, si indebolisce il fronte del neo-imperialismo persiano, dall’altro si rinforza quello del dominio neo-ottomano di Recep Tayyip Erdoğan.
Nello stesso tempo si complica il quadro internazionale nei rapporti tra Turchia e Stati Uniti, mentre l’inesistenza di relazioni con Israele da parte di Ankara rimane apparentemente inalterata. Lo Stato ebraico sente però l’esigenza di mettersi al sicuro da nuovi potenziali nemici: l’arsenale di armi chimiche di al-Assad passerà certamente nelle mani dei nuovi padroni della Siria.
Un rischio che Tel Aviv non può correre, soprattutto perché il conflitto con Hezbollah non è terminato. La prospettiva del dopoguerra, tanto a Gaza quanto sulla sponda meridionale del fiume Nahr al-Līṭānī, si fa sempre più remota, proprio perché la complessità dello scacchiere regionale non accenna a dipanarsi, a scemare, a diminuire anche soltanto su uno dei fronti caldi tutt’ora completamente aperti.
Nonostante Netanyahu sostenga di voler esercitare un “controllo temporaneo” negli altri territori occupati, gli esempi storici che si ricavano, tanto per rimanere nel contesto prettamente siriano, quello delle alture del Golan, non sono certamente rassicuranti. Lo sfondamento di Tsahal oltre la linea cuscinetto al confine con la Siria ha indubbiamente la funzione della garanzia di una prevenzione di eventuali scorribande del nuovo esercito jhadista verso sud; ma porta con sé soprattutto il messaggio che da quella parte non si passa.
Del resto, al-Jawlānī e il suo nuovo regime hanno ben altri grattacapi per la testa: se il vecchio dominio della famiglia Assad aveva garantito un sostanziale rispetto delle minoranze etniche e religiose, il dubbio che tutto questo possa avvenire anche con il governo jihadista è lecito. Per quanto l’Occidente si affanni a dimostrare che sono dei “moderati” rispetto ai miliziani dell’ISIS, il retroterra pseudo-culturale di questi miliziani origina dal mondo della sharīʿa, della Legge coranica, del teocraticismo assolutista.
A indebolire comunque le pretese egemoniche dei vari Stati e gruppi para-statali e para-militari che agiscono nella regione è l’effetto domino delle tante guerre che sono scoppiate, della molteplicità di conflitti che si permeano e si compenetrano; laddove anche si radunano interessi vicendevoli, così, come si separano antiche fratellanze non solo religiose ma pure economiche e finanziarie.
Non si penserà certo che questi miliziani di HTS siano riusciti a conquistare uno Stato così turbolento come quello venuto fuori da decenni di guerra civile, senza appoggi internazionali di lungo corso e di importante sostegno dollaroso… Sembra evidente che, oltre alla Turchia, anche le monarchie del Golfo persico abbiano avuto un ruolo in queste dinamiche che, al momento, rimangono però delle ipotesi indiziarie. Sebbene piuttosto razionali.
Il vuoto di potere che si è creato sarà presto riempito da una nuova amministrazione siriana che si troverà alle prese, diversamente dall’esperienza dello Stato islamico, con una serie di rapporti internazionali piuttosto consolidati: ad iniziare da quello con il governo di Ankara. Sebbene Erdoğan ufficialmente prende le distanze da ogni ipotesi di terrorismo dilagante, sarebbe fare un torto alla cronaca e alla storia recente non prendere atto del fatto che tra HTS e Turchia esiste un rapporto di reciprocità.
Quanto questo sia profondo e radicato fin dentro gli ultimi avvenimenti è difficile poterlo dire. Ma il dato rimane. Assad ora si trova in Russia, protetto da Vladimir Putin che, proprio in Siria, ha ancora basi militari e contingenti di tutto riguardo: gli stessi che hanno, soprattutto con l’aviazione, bombardato le postazioni di HTS negli ultimi giorni, cercando un, più che altro formale, tentativo di protezione del regime dall’avanzata degli jihadisti. Anche gli americani hanno una base al confine con Giordania e Iraq.
Ma Trump ha già fatto sapere che della questione gli importa ben poco e, quindi, i curdi se la dovranno cavare da soli contro gli storici nemici turchi da nord ed ovest e quelli nuovi che hanno preso Damasco e che ora si apprestano ad instaurare uno Stato nuovo che non si sa bene cosa diverrà. Una repubblica islamica tollerante nei confronti delle minoranze? Oppure un nuovo califfato sul modello di quello talebano in Afghanistan?
Quello che era un paese un tempo stabile, oggi si è ridotto ad essere uno dei più frammentati e incerti nell’immediato presente e futuro: oltre sei milioni di siriani hanno tentato di lasciarlo. Molti meno sono riusciti ad approdare sulle coste europee. Tanti rischiano oggi di essere espulsi, con un biglietto di sola andata per Damasco e – come hanno dichiarato esponenti del governo tedesco, per fare un esempio… – con un migliaio di euro in tasca per convincerli più facilmente al ritorno.
La prima preoccupazione dell’Europa, dunque, non è la situazione umanitaria precaria di quella parte del Medio Oriente, ma è il come liberarsi del maggior numero possibile di migranti e, magari, proprio di rifugiati politici. Il ragionamento bislacco è: se sono fuggiti perché c’era Assad, ora che l’ex dittatore non è più al potere, possono rientrare in quello che anche il governo italiano si appresterà a definire uno “Stato sicuro“.
Ma quella terra è, purtroppo, soprattutto oggi un campo di battaglia permanente. Turchi, curdi, ex fedelissimi del presidente deposto, miliziani jihadisti dello Stato islamico, russi e americani. Tutti all’interno di un contesto che è attorniato da altrettante lotte intestine: Ankara contro il PKK, Israele contro Hezbollah… L’incertezza internazionale, poi, non rende più agevole questo intricatissimo contesto regionale.
Siccome riesce difficile pensare che HTS abbia potuto preparare questa discesa a Damasco con tanta facilità, trovandosi davanti un esercito regolare praticamente discioltosi come neve al sole, è presumibile ipotizzare che la meticolosa costruzione delle condizioni favorevoli a questo importante passaggio storico sia stata orchestrata da lungo tempo e da una serie di attori che sulla scena mondiale hanno un ruolo di rilievo.
Washington, oggi più di ieri, oscilla tra quella che è stata definita una “espansione illimitata“, tipica del periodo dell’unipolarismo post-Guerra fredda, e una “contrazione incontrollata“, tipica invece del dopo 2008-2009 quando la crisi economica e finanziaria ha ridotto le speranze statunitensi di essere il perno attorno al quale poteva ruotare la nuova fase della globalizzazione capitalistico-liberista.
“la Repubblica“, il “Corriere della Sera” e altri mostri sacri del giornalismo italiano si affrettano a sottolineare i “segnali di moderatismo” che al-Jawlānī e i suoi starebbero elargendo al mondo per accreditarsi presso i poteri internazionali, per giocare un ruolo nella partita aperta del controllo statuale del paese appena conquistato.
Amici e nemici si vedono nel momento del bisogno. Magari pure reciproco… Dopo la fase della guerra al terrorismo qaedista, dopo quella della lotta all’ISIS, ora gli Stati Uniti, ma anche i russi e i cinesi, hanno un nuovo cinico gioco da giocare sulla pelle dei popoli mediorientali: il risiko siriano. Ci sono nuove regole e la partita ricomincia.
MARCO SFERINI
10 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria