Jean-Paul Marat. Scienziato e rivoluzionario

Oggi si direbbe che il quadro di David, che raffigura Jean-Paul Marat in uno stile neoclassico, magari ispirandosi al Cristo quattrocentesco del Mantegna, è “iconico”. E lo è, infatti....

Oggi si direbbe che il quadro di David, che raffigura Jean-Paul Marat in uno stile neoclassico, magari ispirandosi al Cristo quattrocentesco del Mantegna, è “iconico”. E lo è, infatti. Se si pensa alla Rivoluzione francese vengono alla mente i dipinti che raffigurano la Bastiglia che viene presa dal popolo, i ritratti di Danton che dalla tribuna della Convenzione con veemenza interviene davanti ai deputati, il Robespierre seduto in poltrona con il cagnolino che gli gironzola intorno e poi, per finire, per l’appunto il Marat morente e, un po’ dopo, il generale Bonaparte sul suo cavallo bianco che valica il Gran San Bernardo.

Perché il rivoluzionario “amico del popolo” Marat viene assassinato? Perché si trova in una vasca da bagno mentre è intento a redigere appunti e discorsi? Perché proprio lui, tra tutti i leader rivoluzionari, è toccato da questa sorte? Queste sono alcune delle domande che stanno ad epilogo di una vita travagliata eppure molto affascinante: quella di un giovane studente di medicina che si è diviso tra le sue origini elvetico-sarde a Boudry e l’Inghilterra in cui trova quel margine di libertà di parola e di scrittura che in Francia non era permessa.

In Marat c’è un tratto europeo che sfiora il cosmopolitismo, tanto nella sua ascendenza familiare quanto nella sua discendenza politica. Una passione, questa, che gli si manifesterà in tutta la sua forza proprio negli anni londinesi. Tra il tratteggio di un romanzo storico e qualche trattato filosofico-scientifico, il giovane Jean-Paul è ancora ben lungi dal diventare uno dei capi della Montagna. Prima di arrivare in Gran Bretagna, quando ancora si trova nell’ambito familiare elvetico, a ridosso del Lago di Ginevra, sogna di andare in Siberia con una spedizione per poter assistere ad eventi astronomici.

Scrive persino una lettera al re Luigi XV che, ovviamente, non sarà nemmeno presa in considerazione. Ne resterà deluso e peregrinerà un po’ per la Francia facendo da precettore e vivendo precariamente alla giornata. Poi inizierà gli studi di medicina e qui c’è una prima svolta della sua vita: l’interesse per la fisicità associato comunque ad una propensione metafisica di indagine dell’ignoto, dello sconosciuto, addirittura dell’inconoscibile per eccellenza. Dall’anima cattolicamente intesa, ed alla sua ricerca entro i limiti degli organi vitali dell’essere umano, fino alle domande sull’esistenza, sul suo mancato senso.

Non è facile trovare delle buone biografie su Marat, ma quella scritta da Giuseppe Gaudenzi e Roberto Satolli per Mursia è un buonissimo punto di partenza per comprendere la figura di un rivoluzionario che, prima d’essere tale, fu senza dubbio uno scienziato in erba: “Jean-Paul Marat. Scienziato e rivoluzionario“, per l’appunto, uscita nel 1989, tratta con molta accuratezza questi due aspetti dell’esistenza di colui che cambiò il suo cognome e vi aggiunse una ti finale per non essere confuso con certi parenti irlandesi con cui, del tutto probabilmente, non era in buoni rapporti.

Perché abbiamo iniziato queste righe dalla scena della morte di Marat? Perché nel gesto di Charlotte Corday, girondina e monarchica, c’è una potenza espressiva degna del quadro di David che ne è l’istante immediatamente successivo e che, quindi, diviene la sintesi della vita del rivoluzionario che a gran voce, primo fra tutti gli altri (anche prima di Robespierre), chiese che la Francia divenisse una repubblica dopo la fuga di Luigi XVI a Varennes. Fino a quel momento, Marat è uno dei capi della Convenzione: è tra quelli che anima di più le estremizzazioni del conflitto anche di classe interno al movimento rivoluzionario.

Conosce in prima persona l’indigenza dall’uscita dal nido familiare fino agli anni in Oltremanica. Si rende conto che un medico non può soltanto curare ma dovrebbe saper prevenire certi malanni che, in quei tempi, si chiamano inedia, fame, povertà su vasta scala, mentre clero e nobili vivono agiatamente alle spalle di quel proletariato e di quella piccola borghesia che diventeranno famosi nel termine interclassista di “Terzo Stato“. Così, nella biografia di Gaudenzi e Satolli la compenetrazione tra l’essere studente di medicina e l’essere appassionato di questioni sociali e politiche diviene il punto focale attorno a cui ruota l’analisi della figura di Marat.

Quando la popolazione di Parigi si muove verso Versailles per chiedere che nella capitale non manchi più il pane, Marat sostiene la sommossa, la incalza ma poi mostra una eccessiva fiducia nella figura reale, tanto da attribuirle quasi un carattere salvifico. Si convince che la figura del sovrano ha in sé, nonostante tutto, le peculiari caratteristiche della mediazione, del buon governo. Ma si illude. E se ne renderà conto ben presto. Ciò potrebbe risultare molto contradditorio rispetto a quello che diventerà il suo terreno di lotta ben pochi mesi dopo. Ma va tenuto a mente che la barca della rivoluzione viaggia in una tempesta piena di imprevisti, di incognite e con una velocità inarrestabile.

Nemmeno chi la dirige, o pensa di poterlo fare, sà bene quale sarà la rotta che tutto ciò che si è messo in moto nel luglio del 1789. Ma un elemento diviene sempre più evidente: la rivoluzione non può essere soltanto un mutamento istituzionale. Non basta la repubblica, in sé e per sé, a garantire migliori condizioni di vita per quell’ottanta per cento del popolo francese che vive nella più completa miseria. Marat se ne avvede nel periodo di governo della Gironda, quando il compromesso è la cifra su cui misurare il cambiamento da moderato a radicale. Scrive su “L’Ami du peuple” a quasi un anno dai fatti della Bastiglia: «Che cosa avremo guadagnato a distruggere l’aristocrazia dei nobili, se essa è stata rimpiazzata dall’aristocrazia dei ricchi?».

Il medico-scienziato che è in lui riemerge nell’analisi sociale ed antropologica di una età matura per andare oltre quelle classi sociali che sono plurisecolari e che, con la nascente economia capitalistica (proprio da quell’Inghilterra in cui si era formata gran parte della sua identità culturale politica), indubbiamente subiranno un mutamento di cui la rivoluzione è veicolo in parte inconsapevole. La borghesia, è stato detto tante volte, si sostituisce all’aristocrazia e la democrazia francese altro non diviene se non il nuovo regime entro i cui termini deve stare la grande massa degli sfruttati. Marat lo intuisce ma non fa a tempo ad elaborare il tutto.

Il pugnale di Charlotte Corday metterà fine a possibili sviluppi in questa direzione. Certo, Marat è anche l’uomo che con più vigore enumera l’epurazione sociale e civile nel nome di una moralità repubblicana che sia ligia ai princìpi giacobini. Mentre Danton è fortemente e caparbiamente pragmatico, mentre Robespierre è ligio ad un costituzionalismo in cui inserisce elementi di trascendenza anche religiosa e di culto civile accomunato a quello per l’Essere Supremo, Marat è il rivoluzionario che non ha mezzi termini. Per questo, nella sua retorica di piazza e nei discorsi alla Convenzione, sovente si lascia andare a richieste di decapitazioni di massa.

Suo malgrado diventa l’emblema di una cruenza esagerata: «Cinque o seicento teste tagliate avrebbero assicurato il tuo riposo, la libertà e la felicità. Una falsa umanità ha tenuto le tue braccia e sospeso i tuoi colpi; a causa di questo milioni di tuoi fratelli perderanno la vita». Profeticamente proteso ad interpretare il cammino rivoluzionario in chiave assolutamente popolare, per niente disposto ad accettare che qualche indottrinamento fatalistico si metta a capo del processo di cambiamento, nonostante la raffigurazione semplicistica che gli è stata attribuita di sanguinario e quasi di boia politico, ha ben chiare le difficoltà che il governo repubblicano ha davanti.

Vede lucidamente le contraddizioni fazionistiche e ne teme i risvolti nel lungo periodo. Ma non si esime dal farne parte, dall’essere complottista pur avendo paura dei complotti. Ma non verso di sé: verso quella nuova Francia che resiste alle monarchie europee, che respinge i loro attacchi e che sta mostrando all’Europa che si può fare a meno dei sovrani, dei nobili e del clero. Il testo di Gaudenzi e Satolli riprende queste intuizioni, questi aneliti che si infrangono nella cruda realtà della difficoltà economico-sociali di un paese strangolato da quelli che oggi chiameremmo gli “embarghi” e che, allora, erano definiti “blocchi continentali” (ne saprà qualcosa anche Napoleone…).

Al punto in cui si è spinto il vento rivoluzionario, per Marat non c’è altro cammino da intraprendere se non quello del sempre maggiore consolidamento del potere delle classi più fragili e deboli. La Gironda in lui scorgerà uno dei più intransigenti ostacoli per l’affermazione di un regime borghese-popolare, per una ritrovata condivisione degli interessi tra ex nobili e nuovi ricchi o, quanto meno, benestanti. Il processo contro Marat, accusato di aver istigato all’insurrezione contro il governo, finirà in una bolla di sapone: accuse pretestuose, Montagna, parigini e persino il suo accusatore pubblico dalla sua parte. L’assoluzione diverrà un boomerang per i federalisti.

Non c’è dubbio: Marat è una figura che non induce alla ricerca di sfumature. Spigoloso e quadrangolare, netto, diretto, senza mezzi termini. Di lui si possono dire le peggiori cose, per la maggior parte tramandate da una retorica revisionista che falsa la storicizzazione della sua persona nel contesto prettamente rivoluzionario. Ma non si potrà mai negare che abbia avuto un ruolo di contrappeso rispetto alla preponderate fase girondina dei primi due anni di capovolgimenti e stravolgimenti nella Francia che passava dall’Ancien Régime alla modernità quasi ottocentesca. Ci si deve fermare qui però con le osservazioni storiche: perché il resto sarebbero supposizioni.

Ripartendo proprio dalla vasca da bagno in cui Marat trova la morte. Se fosse vissuto più a lungo anche la Rivoluzione sarebbe andata differentemente. Ma questo vale per le premature morti di Danton, Desmoulins, Robespierre, Saint Just e persino dei girondini. Mai come nei lustro che va dal 1789 al 1794 si sono concentrati così tanti avvenimenti da impedire una chiara visione di insieme che, effettivamente, sarà possibile soltanto con la fine della spinta rivoluzionaria repubblicana e con l’affermazione del borghesismo come regime nuovo della Francia che conquista l’Europa e la sottomette ai valori condivisi di libertà, uguaglianza e fratellanza.

Marat avrebbe approvato? Difficile poterlo dire. Ma, se rimaniamo fermi all’attimo prima in cui il fendente della Corday lo ha colpito al petto, forse possiamo immaginare che non avrebbe approvato né il consolato né tanto meno una nuova monarchia, seppure “dei francesi“. Il suo cuore sarà asportato dalla salma e posto in una urna di pietra nella sala delle riunioni del Club dei Cordiglieri. Il coltello del tradimento sta, nel dipinto di David, a margine della scena e sembra significare, nella sua sanguinolenta trasposizione iconografica, un passato cui il Marat morente si pone rispetto al futuro. La dedica del pitorre riluce, così come l’intero corpo visibile e cadente sul fianco destro.

La morte dello scienziato e rivoluzionario non eviterà le turbolenze del Terrore. Del resto, era in quel contesto molto difficile poter dare seguito ad un nuovo mondo, ad una nuova società tenendosi in grembo tutta quella che l’aveva preceduta. Questo, diranno in tanti, non giustifica le esecuzioni con processi farsa, le accuse false e le leggi come quella del 22 di Pratile che darà al tribunale di Martial Herman e Antoine Quentin Fouquier de Tinville nuovi poteri. Marat potrà anche essere considerato un estremista tanto nelle proposizioni di pensiero quanto nelle azioni. In realtà aveva molto più semplicemente riunito in sé la rabbia sociale con la teorizzazione politica di un sistema che impedisse il ritorno del passato.

Ma la Rivoluzione, ad un certo punto, parve quasi avere vita propria, prescindendo dai suoi padri e dai suoi figli. Fagocitandoli e cambiando in sembiante. Diventando certamente, nel procedere degli eventi, ben altro da quello che era stata soltanto cinque anni prima dell’ultima carretta verso la ghigliottina. Ma a quel punto non solo la Francia, ma il vecchio mondo erano scomparsi. E forse per sempre.

JEAN-PAUL MARAT. SCIENZIATO E RIVOLUZIONARIO
GIUSEPPE GAUDENZI, ROBERTO SATOLLI
MURSIA, 1989
€ 19,90

MARCO SFERINI

11 settembre 2024

foto: particolare del dipinto di David “La Mort de Marat” (1793)


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