SECONDA PARTE
Domanda e offerta sono la base di ogni regola commerciale. Spesso anche in ambito cinematografico, ma questa regola non vale per artisti quali Jacques Tati.
François le facteur in due soli film era diventato una sorta di “eroe nazionale”. Il pubblico voleva rivederlo, i produttori volevano “sfruttarlo”, avevano già pensato ad improbabili sequel che avrebbero portato il postino più amato di Francia a sposarsi, ad andare a Parigi e negli Stati Uniti. Ma Tati disse di no: “Non si può far cassa sulla scia di Jour de fête. Io ho un’altra idea del mio mestiere. Adesso prepariamo tranquillamente un altro film che sarà valido nella misura in cui potremmo continuare a non essere servi del mercato”.
Nella ferma volontà di non soccombere a regole e modelli imposti il regista iniziò così a lavorare sul nuovo personaggio da portare sul grande schermo. Il carattere lo prese dal suo commilitone Lalouette un parrucchiere involontariamente anarchico che chiamava i suoi superiori semplicemente “Monsieur”, senza riconoscerne il grado. Destabilizzante nella rigida gerarchia militare.
L’abbigliamento era “casuale”, ma curato dalla testa ai piedi. Il cappello floscio, la giacca a quadrettini chiari, i pantaloni troppo corti che mostravano i calzini a righe, le scarpe di tela. In bocca una pipa sempre spenta, una trovata per continuare a non far parlare il suo personaggio.
Involontariamente anarchico e dissacrante, vestito “come se fosse un bambino cresciuto troppo rapidamente e continuasse ad avere l’abbigliamento di prima” (secondo la sintesi del critico Fernaldo Di Giammatteo), ma il nome?
“Questo nome è stato scelto con la piena e completa approvazione dell’amministratore del palazzo dove abito” scrisse Tati rispondendo con la solita ironia alla curiosità di pubblico e giornalisti. Già perché quel nome era di una persona in carne ed ossa. L’uomo non era un semplice amministratore di condominio, ma un architetto che aveva progettato, tra gli altri, l’edificio in rue de Penthièvre a Parigi dove viveva il regista. Nicolas il nipote dell’architetto, e futuro Ministro dell’Ecologia della Francia, ricordò che la silhouette del nonno paterno aveva colpito Tati e che ogni volta che c’era un problema la custode sentenziava “bisogna chiamarlo”. Bisognava chiamare il signor Paul Marie Joseph, per tutti Monsieur Hulot.
Le riprese del secondo lungometraggio di Jacques Tati iniziarono nel luglio del 1951 negli studi di Boulogne-Billancourt e in una piccola stazione balneare che si affacciava sull’Atlantico chiamata Saint-Marc-sur-Mer, erano Les vacances de M. Hulot (Le vacanze di Monsieur Hulot).
La sceneggiatura venne scritta dal regista con l’amico Henri Marquet e la collaborazione di Pierre Aubert e Jacques Lagrange. Fred Orain si occupò, come nei precedenti film del regista, della produzione.
La lavorazione, tuttavia, non fu semplice. Le riprese vennero presto interrotte, per mancanza di fondi, e si conclusero solo nell’ottobre del 1952. Anche la distribuzione ebbe qualche intoppo e si sbloccò solo dopo un’anteprima esclusiva a Châtenay-Malabry alla presenza di produttori e distributori. Tatì fece alcune variazioni. Les vacances de M. Hulot uscì il 27 febbraio 1953.
È tempo di vacanze. Tra gruppi di turisti che in treno, autobus e auto raggiungono la località balneare di Saint-Marc-sur-Mer, giunge anche lo stralunato Monsieur Hulot (Jacques Tati) a bordo della sua scoppiettante Salmson. Dal suo arrivo nell’Hotel De la Plage, frequentato da placidi e noiosi borghesi che si danno appuntamento di anno in anno, l’uomo porta, del tutto involontariamente, scompiglio. A farne le spese, tra gli altri: l’albergatore (Lucien Frégis), una coppia che ama molto camminare, con lui (Renè Lacourt) che sta sempre un paio di metri indietro la moglie (Marguerite Gérard), un giovane intellettuale (Pierre Aubert) che non alza gli occhi dai libri, un uomo d’affari sempre al telefono, un vecchio militare autoritario (André Dubois), una pensionata inglese (Valentine Camax) e la giovane Martine (Nathalie Pascaud) che è ospitata dalla zia (Michèle Rolla). Gli unici a divertirsi sono i bambini. La vita dell’albergo, scandita dalla campanella che annuncia pranzi e cene, è animata da partite di tennis, gite in campagna, passeggiate a cavallo, un ballo in maschera che va quasi deserto e i fuochi d’artificio previsti per l’ultima sera. La mattina seguente, quando la cittadina si sta svuotando, la vecchia inglese, il passeggiatore e Martine si rendono conto che le vacanze erano… Hulot.
Una poesia sulla “monotonia e sulla patetica solitudine delle vacanze” in cui Tati presentò al mondo il suo Monsieur Hulot, anticonformista involontario. Il film, sebbene dotato di una solida sceneggiatura, non seguì un vero e proprio racconto, ma una concatenazione di eventi causati dal protagonista che deride i villeggianti borghesi “incapaci di divertirsi in quanto impreparati a cogliere la bellezza e la comicità della vita”. Una riflessione dell’autore che lo avvicina a Jean Renoir e Luchino Visconti.
Una comicità, quella di Tati, non sempre facile da amare (specie in anni più concitati e meno ingenui) ma è indubbia la sua capacità di usare lo spazio e il tempo per costruire situazioni che se non scatenano la risata rallegrano l’intelligenza (e il cuore)” (Mereghetti).
Tante le scene indimenticabili in cui sono i rumori, più che le parole protagoniste (Hulot pronuncia all’arrivo dell’albergo il suo nome e poi non parla più): dall’inizio nella stazione dove i turisti sono vittime di un altoparlante incomprensibile alla camera d’aria su cui si appiccicano le foglie e che un becchino scambia per una corona funeraria; dalla partita di tennis dove Hulot sbaraglia tutti col suo servizio ai problemi col cavallo, fino ad arrivare all’involontaria accensione dei fuochi d’artificio che trasformano il protagonista in una specie di “girandola pirotecnica”.
Les vacances de M. Hulot, ispirato a Buster Keaton, amato da Woody Allen (che lo considera il miglior film comico mai realizzato), ottenne numerosi premi e riconoscimenti. Tra questi il Premio della critica internazionale al Festival di Cannes (1953), il Premio Louis-Delluc (1953), la nomination all’Oscar per il miglior soggetto e sceneggiatura (1956), il premio come migliore film dell’anno a Cuba (1956). In Italia uscì nel 1953 col titolo Le vacanze del signor Hulot.
Un capolavoro assoluto, ma gli attriti avuti in fase di produzione con Fred Orain portarono ad una lunga causa tra i due soci della Cady-Films. Il regista voleva ottenere una totale autonomia ed indipendenza, anche a costo dell’isolamento.
Nel frattempo la popolarità di Tati cresceva. Girò l’Europa per presentare il film e nel giugno del 1954 volò, accompagnato dall’elegante moglie Micheline, per la prima volta negli Stati Uniti. Fu un trionfo. La rivista “Life” dedicò un reportage a Monsieur Hulot fotografato tra i grattacieli di New York.
Tornato in Francia nella notte tra il 29 e 30 maggio del 1955 Jacques Tati fu vittima di un grave incidente d’auto. La convalescenza fu lunga e dolorosa e non riuscì più a recuperare la completa rotazione del polso. Un 1955 assai sfortunato. Pochi mesi dopo tutto il materiale girato de Les vacances de M. Hulot venne buttato a seguito di una mancata risposta della Cady-Films al laboratori Èclair che ne conservava la pellicola. Per il regista fu una perdita gravissima.
Nonostante questo nel 1963 il cineasta realizzò una diversa versione del film con un nuovo montaggio e una nuova colonna sonora composta da Alain Romans e dominata dal tema “Quel temps fait-il à Paris?”, scelto da Tati perché “esprime bene la noia e la monotonia”. In questo “nuovo” film Tati inserì il timbro a colori nel finale. Nella seconda metà degli anni ’70 un’ultima versione. Generazioni di giovani spettatori riscoprirono la pellicola e il regista, quasi ad omaggiarli, aggiunse una scena di quattro minuti in cui la canoa di Hulot si piega in due e i bagnanti si spaventano perché la credono un pescecane (una gag ispirata a Lo squalo di Steven Spielberg). Questa definitiva versione di Les vacances de M. Hulot è quella restaurata nel 2009 e disponibile per l’home video (la versione originale del 1953 è solitamente inserita tra gli “extra”).
Tornando agli anni ’50 Federico Fellini ipotizzò Tati per un film su Don Chisciotte, con l’attore francese nel ruolo del protagonista. Quel film non fu mai girato, purtroppo, ma il grande successo de Les vacances de M. Hulot convinse il regista ad una nuova avventura cinematografica. Nel 1956 il cineasta fondò, per avere una totale autonomia produttiva, la Specta-Films, e si mise subito al lavoro.
Il precedente film aveva fatto conoscere e amare lo stralunato protagonista, ma di Hulot si sapeva davvero poco: non si conosceva il suo lavoro, nulla si intuiva della sua famiglia. Ecco, la famiglia. La sceneggiatura scritta dal regista con Jacques Lagrange e Jean L’Hôte chiarì subito un rapporto di parentela. Nacque Mon Oncle (Mio zio).
Le riprese iniziarono l’11 settembre 1956 e terminarono il 25 febbraio del 1957 (cui si aggiunsero alcune scene girate nel marzo del 1958) tra gli studi della Victorine a Nizza, a Saint-Maur-des-Fossés (casa di Hulot) e a Créteil (il quartiere moderno). Una menzione particolare merita, infine, la villa che venne costruita appositamente per il film. Tati dichiarò: “In questo film, ve lo assicuro, ho fatto proprio tutto quello che ho voluto. Se non vi piace, dovete prendervela solo con me”. Il film, il primo girato interamente a colori dal regista, piacque eccome. Mon Oncle uscì il 10 maggio 1958.
Il piccolo Gérard Arpel (Alain Bécourt) è diviso tra la monotonia della casa ultramoderna dei genitori (Jean-Pierre Zola e Adrienne Servantie) e il colore del quartiere popolare dello zio Hulot (Jacques Tati). Cognato e sorella, lui proprietario di una fabbrica che produce tubi, lei ossessionata dall’ordine e felice del vivere borghese, provano ad inglobare lo stralunato parente nel loro mondo, nel mondo della modernità, ma gli esiti sono catastrofici. Solo quando Hulot se ne sarà andato, gli Arpel capiranno che lo zio aveva portato allegria e umanità.
Uno dei vertici dell’arte di Jacques Tati, una satira contro l’affanno borghese di apparire moderni: Hoìulot vive felice nella sua improbabile (ma meravigliosa) casa, gli Arpel sono ossessionati dalla modernità, dalla loro villa iper tecnologica. Mon Oncle fu pertanto un film più complesso rispetto a Jour de fête e Les vacances de M. Hulot, non si “limitò” ad una comicità immediata, ma attaccò il mito della modernità e del consumismo. Per farlo il regista specificò fin dal titolo, Mio zio, che il punto di vista era quello del piccolo Gérard.
Ad essere protagonista, una volta di più, furono i suoni. Tante le scene indimenticabili che alternano la spensieratezza del quartiere popolare di Hulot, alla rigidità della villa moderna degli Arpel (virati anche in maniera diversa). Da manuale il disastro della festa in giardino che ispirò Blake Edwards per The party (Hollywood Party) col grande Peter Seller a combinare guai.
Il film ottenne un clamoroso successo di pubblico in Francia e all’estero aggiudicandosi il Premio della giuria al Festival di Cannes nel 1958 e l’Oscar come Miglior film straniero nel 1959. A Hollywood, dove il film era stato distribuito col titolo My Uncle, Tati ebbe la possibilità di conoscere alcuni suoi “idoli”: Mack Sennett, Harold Lloyd, Stan Laurel e Buster Keaton.
Anche in patria la popolarità di quel “rivoluzionario involontario” era alle stelle. Il 14 luglio 1959 Jacques Tati, nonostante avesse rifiutato il prestigioso Ordre des arts et des lettres per mantenere assoluta indipendenza, venne invitato all’Eliseo dal Presidente Charles De Gaulle. Come era capitato a pochi altri grandi, su tutti Charlie Chaplin, era riuscito ad unire gli ultimi e i potenti.
Il successo, tuttavia, non fermò il suo lavoro. Dopo aver cambiato casa da rue de Penthièvre a Parigi a Saint-Germain-en-Laye, Tati iniziò a scrivere con Jean-Claude Carriére (che in seguito diverrà l’autore preferito di Luis Buñuel) la sceneggiatura per un nuovo film intitolato L’illusioniste, la storia di un anziano illusionista francese. Ma quel progetto finì presto nel cassetto. Venne semplicemente archiviato come “Film Tati n° 4”.
Tati non si scompose e tornò a teatro portando uno spettacolo sperimentale, “Jour de fête à l’Olympia”, cui fecero seguito due nuove versioni del suo primo lungometraggio. Non era, infatti, ossessionato dalla realizzazione di un nuovo film (“Non penso sia possibile trovare ogni sei mesi o ogni anno un soggetto d’una tale ricchezza” che permetta di esprimersi liberamente), ma un’idea a oltre sei anni da Mon Oncle l’aveva. A Vincennes, a sud di Parigi, il regista aveva dato inizio ai lavori di costruzione di un’enorme scenografia tridimensionale per la sua nuova pellicola. Ci vollero diversi mesi, 15000 metri quadrati di superficie, 50000 metri cubi di cemento, 4000 metri quadrati di plastica, 3200 metri quadrati di armature e 1200 di vetro. I lavori terminarono nel gennaio del 1965. Un set talmente unico e personale da essere presto ribattezzato Tativille.
Uno sforzo produttivo senza precedenti, ma gli incassi dei primi tre lungometraggi giustificavano l’investimento: Jour de fête era costato 17 milioni e ne aveva incassati 80; Les vacances de M. Hulot costò più di 100 milioni, ma ne incassò oltre il doppio; Mon Oncle che fu realizzato con un budget di 250 milioni, ne fruttò oltre 600. Per il nuovo film ne furono stanziati 700.
La sceneggiatura, scritta da Tati con Jacques Lagrange e Art Buchwald, vedeva ancora protagonista Monsieur Hulot non più in una località balneare (Les vacances de M. Hulot) o diviso tra passato e modernità (Mon Oncle), ma in uno spazio urbano immenso. Una megalopoli. Il film, inizialmente intitolato La récréation, venne presto ribattezzato Playtime (Play Time – Tempo di divertimento).
Le riprese, effettuate su pellicola da 70 millimetri (una migliore risoluzione rispetto alla classica 35 mm), durarono 365 giorni spalmati in tre anni, dall’ottobre del 1964 all’ottobre 1967. Un lungo lavoro che subì molte interruzioni sia a causa di problemi meteorologici, sia per gravi problemi finanziari, i costi salirono a 1 miliardo e settecentomila di vecchi franchi, che portarono Tati ad ipotecare la casa di Saint-Germain-en-Laye.
Durante le riprese di Playtime, nel marzo del 1967, Jacques Tati, scrisse e interpretò anche il cortometraggio affidato al suo giovane assistente Nicolas Ribowski Cours du soir, girato a Tativille e interpretato dal personale della produzione del lungometraggio. Nel film un comico (Jacques Tati, all’inizio e alla fine sembra proprio Hulot) insegna a degli allievi poco talentuosi come costruire gag comiche in un corso serale.
Ma il progetto vero era l’altro. Nonostante le enormi difficoltà, il 13 dicembre 1967 uscì Playtime.
Un gruppo di turisti americani giunge all’aeroporto di Parigi, tra loro una ragazza Barbara (Barbara Dennek) sembra particolarmente ansiosa di conoscere il fascino della capitale francese. I turisti giungono in hotel, un palazzo tra edifici tutti identici, che ospita anche uffici ultramoderni e stand espositivi. Negli stessi spazi si muove Monsieur Hulot (Jacques Tati) che si perde in quel labirinto alla ricerca del signor Giffard (Georges Montant). Barbara e Hulot si incontreranno tra stand che pubblicizzano le cose più disparate (pattumiere a forma di colonne antiche, occhiali articolati per truccarsi senza doverli togliere, scope con fanali per far luce sotto i mobili, porte silenziose anche se si sbattono). Hulot dopo essere stato assalito dal responsabile dello stand tedesco (Reinhart Kolldehoff) incontra un suo vecchio commilitone (Yves Barsacq) che lo invita a conoscere la famiglia in un condominio di appartamenti uguali e speculari dove dalla strada si vede tutto. Poi viene coinvolto nell’inaugurazione del Royal Garden, un raffinato locale non ancora ultimato, dove direttore (André Fouché) e architetto (Georges Faye) cercano invano di risolvere gli ultimi problemi. Nel ristorante giungono anche i turisti americani. Una serie di incidenti movimenta l’apertura. All’alba Hulot accompagna Barbara che si prepara a lasciare Parigi. La perderà la mattina seguente nel traffico.
L’opera più complessa e ambiziosa di Tati, innovativa, sperimentale. Geniale. Divisa in due parti, l’edificio-labirinto e l’inaugurazione del locale, la pellicola criticò la modernità e l’omologazione che comporta. Un manifesto contro la civiltà dei consumi in cui Hulot è sempre relegato ai margini delle inquadrature, confuso tra gli altri, in una Parigi totalmente asettica. “I turisti non vedono nulla di particolare, mai nulla di umano. Sono stato attento, per dare forza alla mia idea, che nessun pezzo di verde, nessun superstite ramo d’albero si potesse trovare in questo universo disumano” dichiarò il regista.
Un’opera straordinaria, ma anche un clamoroso insuccesso. Il pubblico abbandonò Tati. Il film fu poco visto in Europa, non distribuito negli Stati Uniti. Playtime vinse alcuni riconoscimenti importanti, su tutti la Stella di cristallo dall’Académie du Cinéma, ma venne snobbato anche dalla critica. L’unica voce fuori dal coro fu quella di François Truffaut che scrisse: “un film che viene da un altro pianeta… l’Europa del 1968 vista da un Lumière marziano”. Già, un altro pianeta, ma in quello in cui viveva Tati fu un disastro finanziario che costrinse il regista prima ad accorciare il film dagli iniziali 152 minuti a 137, poi definitivamente a 125 (la versione che si trova nell’home video), poi a fare quello che non avrebbe mai voluto: fare della pubblicità. Nel 1968 accettò di realizzare spot per la Danone, per la Simca e per la Lloyd’s Bank di Londra. Dopo la morte del padre, avvenuta prima dell’uscita di Mon Oncle e quella della madre, Tati fu anche costretto a vendere la casa dove era cresciuto per saldare parte dei debiti. Per aiutarlo l’amico Truffaut lo volle per un cameo in Domicile conjugal (Non drammatizziamo… è solo questione di corna, nella pessima titolazione italiana).
Ma neppure la precaria condizione finanziaria fece dimenticare a Tati l’idea del cinema d’autore. Dopo diverse critiche al mondo dei produttori e dei distributori (e perfino a Totò, colpevole di piegarsi alle esigenze degli stessi) e diversi rifiuti, il regista trovò la disponibilità di alcune persone. Il primo a rispondere fu Alec N. Wildenstein, ricco mercante d’arte che non si permise di dire nulla sul soggetto, ma chiese ed ottenne il coinvolgimento della fidanzata dell’epoca, la top model Maria Kimberly. Il secondo fu Bert Haanstra regista olandese, autore di Glas (premio Oscar nel 1960 per il Miglior documentario) e di Fanfare (uno dei più importanti film dei Paesi Bassi), che ottenne qualche “passaggio” ad Amsterdam e collaborò al soggetto, insieme a Jacques Lagrange. Nel progetto anche l’italiana Selenia Cinematografica.
Al centro della pellicola ancora, e non poteva essere altrimenti, Monsieur Hulot. Quello stralunato personaggio doveva tornare, questa volta in un curioso “road movie”. Era Trafic (Monsieur Hulot nel caos del traffico).
Anche in questa occasione, tuttavia, la lavorazione fu tormentata. Le riprese durarono dall’aprile 1969 al marzo 1971; Maria Kimberly si dimostrò tutto fuorché una grande attrice (al punto che questo fu il suo primo e unico film); Bert Haanstra abbandonò il set per contrasti con Tati (l’olandese non voleva limitarsi alle consulenze, al punto che negli anni qualcuno ipotizzò un suo coinvolgimento nella regia); come se non bastasse il progetto inizialmente pensato per la televisione, quasi ad anticipare le serie TV che nei decenni a seguire avrebbero invaso il piccolo schermo, dovette trovare un distributore. Tati trovò in extremis la disponibilità di Robert Dorfmann, uno dei più importanti dell’epoca. Trafic uscì il 16 aprile 1971.
Monsieur Hulot (Jacques Tati) ha disegnato per la casa automobilistica francese “ALTRA”, in cui lavora Maria (Maria Kimberly), una sperimentale vettura per campeggiatori dotata di ogni accessorio. Tanto bizzarra quanto funzionale. Il prototipo viene inviato al salone automobilistico di Amsterdam, ma il viaggio si rivela più complicato del previsto tra problemi meccanici, fermate inattese, esami alla dogana e diversi incidenti, arrivando così in ritardo, quando il salone è ormai chiuso. Hulot, considerato responsabile, viene licenziato, proprio mentre la sua vettura, abbandonata all’ingresso della fiera, attira l’interesse dei passanti.
Un piccolo gioiello, in genere sottovalutato, dall’umorismo gentile e dai meccanismi perfetti (le scene nel traffico sono da manuale). Hulot non si muove più in spazi circoscritti, ma viaggia dalla Francia all’Olanda, attaccando (forse con minore radicalità rispetto al passato) la modernità, con particolare riferimento al mito dell’automobile. Trafic ottenne un buon successo di pubblica e di critica, ma non riuscì a sanare le perdite di Playtime.
Trafic fu l’ultima volta per Monsieur Holot, personaggio unico e geniale che criticò il mito della modernità, sconvolgendo tempi, riti e consuetudini della comicità. Secondo la definizione dello stesso Jacques Tati un uomo “di un’indipendenza totale, di un disinteresse assoluto, che la sventatezza, il suo difetto principale, rende, nella nostra epoca funzionale, un disadattato”.
redazionale
Bibliografia
“Jacques Tati” di Roberto Nepoti – Castoro
“Jacques Tati” di Francesca Boschetti – L’Epos
“L’integrale Jacques Tati” – Rilpey’s Home Video
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2021” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza Screenshot dei film Mon Oncle e Playtime; foto 1 Screenshot del film Jour de fête; foto 2 da fr.wikipedia.com; foto 3, 4 5, 6 Screenshot del film Le vacanze di Monsieur Hulot; foto 7, 8, 9 Screenshot del film Mon Oncle; foto 10 da reddit.com; foto 11 Screenshot del film Cours du soir; foto 12, 13 Screenshot dei film Playtime; foto 14, 15 Screenshot dei film Trafic.
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