“Italia dei rancori” o “dello sfruttamento”?

Di seguito i punti più significativi contenuti nel rapporto del CENSIS 2017. Riguardo ad ogni punto mi sono permesso alcune osservazioni di merito, senza sviluppare però un discorso complessivo...

Di seguito i punti più significativi contenuti nel rapporto del CENSIS 2017. Riguardo ad ogni punto mi sono permesso alcune osservazioni di merito, senza sviluppare però un discorso complessivo di carattere generale che potrà essere eseguito soltanto con un maggior tempo di approfondimento a disposizione.

L’Italia si risolleva: corre la produzione industriale, con performance che superano anche quella tedesca. E così nel Rapporto Censis 2017 tornano finalmente i consumi, cresciuti del 4% negli ultimi tre anni, e soprattutto il piacere di consumare: si spende di nuovo in cultura, parrucchieri, prodotti cosmetici e trattamenti di bellezza, pacchetti vacanze (il 10,2% in più nel biennio 2014-2016. “Torna il primato del benessere soggettivo”: una svolta positiva, ma non del tutto. Si accentua sempre di più tra chi ha compiuto finalmente il balzo in avanti, liberandosi dalle strettoie della crisi, e una maggioranza rabbiosa che è rimasta indietro. “L’Italia dei rancori”, la chiama il Censis: “Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore”.

Il termine “Italia dei rancori” appare assolutamente sbagliato. Si dovrebbe scrivere di “Italia dello sfruttamento” (se la produzione industriale cresce e l’occupazione ristagna in quale altra maniera si può definire il fenomeno?) e “l’Italia del consumismo individualistico” (consumo naturalmente, come negli anni’50 riservato soltanto a determinate categorie sociali), il veleno che fu inoculato al tempo del regno del Bengodi (anni ’80) e della svolta reaganiana – tachteriana. Nel frattempo è crollato lo stato sociale e settori come la sanità, la scuola, i trasporti (delegati ai livelli regionali) hanno subito inopinati assalti dalla privatizzazione selvaggia

Ascensore sociale sempre più fermo. Un dato preoccupante perché riguarda una parte enorme della popolazione italiana, che guarda con invidia un ascensore sociale irrimediabilmente rotto: l’87,3% degli appartenenti al cento popolare pensa che sia difficile risalire nella scala sociale, una posizione condivisa dall’87,3% del ceto medio e persino dal 71,4% del ceto benestante. Tutti invece pensano che sia estremamente facile scivolare in basso nella scala sociale, compreso il 62,1% dei più abbienti.

Il dato più negativo che emerge da questo punto riguarda la crescita culturale di massa che aveva propiziato, a suo tempo, una maggiore mobilità sociale (oltre all’urbanizzazione dal Sud al Nord, al tempo delle grandi fabbriche). E’ scaduto il “valore dello studio” come fattore di crescita sociale ed anche individuale.

Record di immigrati con basso titolo di studio. E in quest’Italia sempre meno coesa, che si guarda in cagnesco, bloccata dalla paura di perdere quel poco o quel molto che ha, cresce un’immigrazione che si candida ogni giorno di più alla marginalizzazione. Nel nostro Paese arrivano gli immigrati più poveri e meno qualificati: a fronte di un dato medio degli extracomunitari con istruzione terziaria in Europa pari al 28,5% (ma con punte del 50,6% nel Regno Unito e del 58,5% in Irlanda), da noi ci si ferma al 14,7%. Nel 2016 su 52.056 nuovi permessi rilasciati dalla Ue a lavoratori qualificati, titolari di Carta blu e ricercatori, appena 1.288 erano per l’Italia, a fronte di 11.675 per i Paesi bassi.

Questo dato è probabilmente il più negativo tra tutti quelli compresi nell’analisi del CENSIS, perché dimostra la scarsa capacità di attrazione da parte del nostro Paese rispetto alle professioni più qualificate. Del resto è logico essendo assenti possibilità di inserimento. La marginalità dell’Italia richiama specificatamente la marginalità della sua immigrazione. Inoltre da rimarcare la grandissima confusione nell’accoglienza, l’incapacità di riconoscere i vari tipi di migranti, l’accoglienza stessa lasciata a soggetti esclusivamente dediti a trarne profitto immediato, la “lagerizzazione” (da lager) dei migranti nei vari centri: migranti poi dati in pasto ai più diversi meccanismi di sfruttamento immediato.

Lavoro, scompaiono le figure intermedie. E siccome il lavoro in Italia si va sempre più “polarizzando”, rileva il Censis, tra professioni intellettuali e impieghi non qualificati, è sempre più difficile attrarre immigrati perché si assottigliano posizioni mediane come quelle di operai, artigiani e impiegati. In cinque anni operai e artigiani diminuiscono anzi dell’11%, a fronte di una crescita dell’11,4% delle professioni intellettuali ma anche dell’11,9% delle professioni non qualificate. Vince la gig economy: nell’ultimo anno l’incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci, più 11,4%. Mentre si assottigliano in maniera preoccupante i professionisti: 10 punti persi in meno di dieci anni per gli under 40.

Questo dato riguarda direttamente la crisi dell’industria e l’assoluta sottovalutazione del fenomeno da parte delle istituzioni impegnate completamente su altri fronti dopo la sbornia di privatizzazioni dei decenni precedenti (privatizzazioni sul cui esito sarebbe bene riflettere, anche dal punto di vista della “questione morale”). Professionisti e artigiani rappresentano figure storicamente legate in prevalenza all’indotto industriale. Certo gli artigiani non possono crescere soltanto nella direzione di fabbricare souvenir per i turisti e nemmeno possono essere considerati artigiani i centurioni fuori dal Colosseo. Questo punto ne richiama un altro assolutamente drammatico: il deficit di innovazione tecnologica nei settori strategici nei quali è stato accumulato un gravissimo ritardo (eufemismo). Deficit di innovazione tecnologica che ha sottratto una presenza significativa nei settori strategici.

Crollo di iscritti ai sindacati confederali. La crisi del lavoro si traduce anche in una crisi dei sindacati tradizionali: tra il 2015 e il 2016 Cgil Cisl e Uil hanno subito una contrazione di 180 mila tessere. Su 11,8 milioni di iscritti alle tre sigle, 6,2 milioni sono costituiti da lavoratori attivi (+0,2%) e 5,2 milioni da pensionati (-3,9%). Secondo il Censis, si manifesta quindi “l’esigenza di una maggiore inclusione da parte dei soggetti di rappresentanza verso categorie e segmenti non tradizionalmente coperti dall’azione sindacale”.

Acclarato che la diminuzione del lavoro fisso e la crescita del precariato hanno portato ad una diminuzione fisiologica negli iscritti al sindacato esiste una ragione ancor più significativa: lo spazio concesso alla contrattazione individuale, la disparità nel trattamento fra i diversi livelli, l’assoluta deficienza nel difendere le condizioni materiali di lavoro, il mancato riconoscimento di determinate nuove categorie di sfruttamento appaiono concause determinanti del fenomeno che non può essere racchiuso soltanto nella diminuzione del numero degli iscritti ma in una ben più rilevante perdita di peso sociali e politico complessivo in un quadro generale di caduta di ruoli dei corpi intermedi.

Pochi laureati, sempre più in fuga verso l’estero. Siamo penultimi in Europa per numero di laureati, con il 26,2% della popolazione di 30-34 anni, una situazione aggravata dalla forte spinta verso l’estero, che assorbe una buona quota di giovani qualificati. Infatti nel 2016 i trasferimenti dei cittadini italiani sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010. Quasi il 50% dei laureati italiani si dice pronto a trasferirsi all’estero anche perché, calcola il Censis, la retribuzione mensile netta di un laureato a un anno dalla laurea si aggira intorno a 1344 euro corrisposti per una assunzione nei confini nazionali ma arriva a 2.200 euro all’estero.

La condizione dell’università italiana è ormai ai minimi termini, la ricerca affidata quasi per intero ai giovani dottorandi non pagati. Sta tutta qui la chiave di questo stato di cose. Baronato, assenza di programmazione e di promozione dei quadri.

E sempre meno giovani. Gli over 64 intanto hanno superato i 13,5 milioni, il 22,3% della popolazione, mentre le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva. Si è ridotto anche l’apporto delle donne straniere, prezioso negli ultimi anni: nel 2010 il numero di nascite per le extracomunitarie era in media di 2,43, ma nel 2016 è sceso a 1,97, mentre per le italiane è di 1,26 figli per donna.

Buona parte delle donne extracomunitarie in Italia per ragioni di lavoro svolge l’attività di badante, categoria per la quale adesso sono entrate in competizione anche disoccupate italiane costringendo le straniere a rientrare. Dal punto di vista della fecondità è evidente che l’acquisizione di usi e costumi del paese ospitante, nel quale emerge sempre più un fenomeno definibile di “secolarizzazione”, riveste una notevole importanza.

Il Sud abbandonato. La polarizzazione non è solo tra chi gode dei benefici della ripresa, e chi è rimasto indietro, ma anche tra un Nord Italia e una capitale sempre più attrattivi e un Sud che offre sempre meno e che si sta letteralmente desertificando. Tra il 2012 e il 2017 nell’area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9% e quelli dell’hinterland del 7,2%. A Milano l’incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a Firenze del 7% e del 2,8%. Si spopolano invece le grandi città del Sud, a cominciare da Napoli, Palermo e Catania, dove affonda anche il Pil. Ma va male anche alle città intermedie come Torino, Genova e Bari.

Fenomeno atavico, mai risolto, affrontato – appunto – con l’emigrazione fin dagli anni’40 e con le “cattedrali nel deserto” e l’assistenzialismo. Mai con un piano generale di industrializzazione del Paese da realizzarsi attraverso un serio e concreto intervento pubblico.

Nel vuoto di aspirazioni resiste il mito del “posto fisso”. Attento da sempre all'”immaginario collettivo”, inteso come “l’insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuale e i percorsi esistenziali di ciascuno”, punto di partenza indispensabile per “definire un’agenda sociale condivisa”, il Censis trova che ormai i vecchi miti appaiano stinti, ma i nuovi siano privi di forza aggregatrice. Infatti per gli under 30 al primo posto ci sono i social network. Per la media degli italiani resiste invece un mito vecchissimo, davvero duro a morire nonostante i colpi bassi delle leggi Fornero e del Jobs Act: il posto fisso, al primo posto per il 38,5%.  E a sorpresa, il posto fisso si piazza al secondo posto anche per la fascia più giovani, anche se è quasi a pari merito con lo smartphone.

Ci mancherebbe altro che in resistesse quel mito! Rispetto alle ubbie avventuriste seminate nel tempo da una propaganda stupida, della quale il “renzismo” (sogno, speranza) ha rappresentato il conclusivo epigono.

In sostanza nel complesso occorre tornare dal privato al pubblico, dall’individuale al collettivo, ritrovando il senso dell’uguaglianza e della solidarietà sociale oltre al concetto di programmazione e di intervento pubblico in economia, nei settori strategici dell’industria e delle infrastrutture, oltre ad un grande sforzo di carattere culturale.

FRANCO ASTENGO

foto tratta da Pixabay

categorie
Franco Astengo

altri articoli