La Commissione europea non è convinta dall’Italia. Ammette di essere stata informata da Roma prima della firma dell’accordo con Tirana che comporta la costruzione di due centri per migranti e richiedenti asilo, ma anche di rimanere in attesa di informazioni più precise da Roma, in modo da poter giudicare se l’accordo viola le regole europee ed internazionali sul diritto d’asilo. Per questo ieri sono cominciate «interlocuzioni» tra Roma e Bruxelles seguite da uno «scambio di documenti».
A livello ufficiale, la posizione Ue viene espressa durante il briefing quotidiano della Commissione dalla portavoce Anitta Hipper, che afferma di essere «in contatto con le autorità italiane» ma anche di voler «vedere i dettagli» e aver richiesto informazioni più specifiche in merito all’accordo. Essere stati informati, più o meno per tempo, è una cosa. Agire in coordinamento con le autorità di Bruxelles è un’altra. Ed è quello che Roma non ha fatto.
Sull’effettivo accesso alla protezione in linea con gli standard del diritto internazionale, la portavoce ha chiarito: «In termini di legge sull’asilo dell’Ue, le richieste vanno fatte sui territori degli Stati membri, che siano al confine oppure in acque territoriali». Queste le linee generali, anche se l’Ue prevede effettivamente un’altra possibilità. «Agli Stati membri», ha aggiunto Hipper «non è precluso anche di adottare norme nazionali per esaminare domande di asilo in Paesi terzi. Senza che però questo pregiudichi il rispetto delle norme europee sull’asilo».
Bisogna anche dire che un accordo bilaterale come quello tra l’Italia, membro Ue, e l’Albania, che non lo è, per la gestione dei migranti, non si era mai visto prima. L’esempio più vicino di esternalizzazione delle domande di asilo è il progetto del Regno unito per inviare i richiedenti asilo in Rwanda. Un piano del 2022 bloccato dai ricorsi legali, avanzato comunque da un Paese non Ue. Ma di cui diversi Stati europei, come la Danimarca, Austria e Germania hanno detto di voler seguire l’esempio.
Contro il modello britannico si era espressa nettamente la commissaria all’immigrazione, la socialdemocratica svedese Ylva Johansson quando aveva affermato: «Esternalizzare il processo di asilo non rappresenta una politica dignitosa e umana», mentre ancora la portavoce della Commissione ha da poco ribadito che i processi esterni di gestione dei migranti sollevano domande «sia sull’accesso alla procedura d’asilo che sull’effettivo possibilità di protezione, in linea con gli standard di diritto internazionale».
Ora, il problema non è solo che il piano Meloni prevede l’appalto esterno delle richieste d’asilo nel territorio di un Paese non europeo. Il fatto è che la Commissione richiede il rispetto delle regole attualmente vigenti: quelle di Dublino innanzitutto, che prevedono la presa in carico da parte dello stato Ue di ingresso. E poi naturalmente le norme umanitarie, per cui un migrante, dopo il dovuto esame della sua richiesta, non può essere respinto in un Paese non sicuro.
Sulla natura delle strutture che il governo vuole impiantare sul suolo albanese è intervenuto anche il ministro degli Interni Piantedosi – come il collega degli Esteri Tajani non certo in primo piano nell’accordo siglato da Meloni – che ha specificato: «Non saranno Cpr ma strutture come Pozzallo dove si trattengono le persone il tempo necessario per svolgere in maniera accelerata le procedure di identificazione e di gestione della domanda di asilo».
Va però ricordato che proprio l’hotspot di Pozzallo, progettato (ma ancora non realizzato) dall’ex commissario all’immigrazione Valerio Valenti, era stato di fatto destinato ad accogliere migranti con scarse possibilità di ottenere asilo. Un rischio questo che si potrebbe replicare anche negli hotspot d’Albania, pensati da Meloni più per respingere che per accogliere.
ANDREA VALDAMBRINI
foto: screenshot tv