Israele, un avamposto occidentale in Medio Oriente

Oltre ai motivi di natura strettamente politica, le divisioni ideologiche ed ideali, le frapposizioni di schieramento e i riferimenti internazionali che ne derivano (o che ne stanno a fondamento),...

Oltre ai motivi di natura strettamente politica, le divisioni ideologiche ed ideali, le frapposizioni di schieramento e i riferimenti internazionali che ne derivano (o che ne stanno a fondamento), esistono altre ragioni un po’ più sottilmente invisibili che spingono una gran parte della cosiddetta “opinione pubblica” a schierarsi naturalmente dalla parte di Israele nel conflitto con il popolo palestinese.

Si tratta del riconoscimento di un parallelismo, così tanto facile da fare quanto difficile da mostrare e dimostrare, una determinazione inconscia (e per questo profondamente radicata in noi) che nota in Israele una continuazione del modello di vita occidentale (europeo ma non solo) minacciato da quel mondo arabo che, ormai dai tempi di Oriana Fallaci e delle Torri gemelle, è per antonomasia il nemico della democrazia, delle libertà civili ma non di certo una alternativa al capitalismo liberista che imperversa in quasi tutti gli Stati africani, mediorientali e asiatici.

Israele è un’anomalia anche (e soprattutto) sul fronte socio-economico: lo stile di vita della popolazione è notevolmente più ricco se paragonato a territori e paesi martoriati da decenni di conflitti come il Libano, la Siria, l’Iraq e persino l’Egitto. Si possono escludere da questo conteggio le monarchie petroldollarose dell’area del Golfo Persico: Qatar, Emirati Arabi Uniti, la stessa Arabia Saudita. Qui l’occidentalizzazione entra nelle vite di popoli trascinati nel nuovo millennio “cristiano” da musulmani integerrimi, che devono simbiotizzare la fede più intransigente con le aperture che il mercato mette in essere in ogni momento della nostra vita.

Israele è l’avamposto occidentale per eccellenza nel primo lembo di terra mediorientale appena superata la Grecia e lasciatasi alle spalle anche l’ultima reminiscenza del colonialismo antico europeo: Cipro. Terra di conflitti permanenti, dove le città sono attraversate da muri e posti di blocco delle Nazioni Unite, dove basi britanniche sono enclave di enclave e la soluzione dell’altra storica contrapposizione, quella tra greci e turchi, è tutt’altro che vicina.

Se per Cipro si può parlare di “stagnazione diplomatica” e di inerzia nell’avanzamento del processo di riunificazione dell’isola già proprietà della Serenissima Repubblica di Venezia, per Palestina e Israele, nonostante non si facciano significativi passi avanti per rimettere in moto la macchina del confronto diplomatico e politico, la situazione è tutt’altro che stagnante.

Israele porta, come eredità naturale della sua fondazione nel 1948, il principio di espansione territoriale che è riscontrabile senza alcuna soluzione di continuità nella colonizzazione di sempre più vaste aree della West Bank dove i muri di contenimento sono arma di ghettizzazione per i palestinesi e di protezione dei più fanatici esponenti della destra religiosa. Lo spostamento sempre più estremo della politica israeliana verso l’ortodossia della fede, per una società modernamente occidentalizzata ma legata profondamente alle simbologie, ai riti e alle discipline dettate nei sacri libri, fa per certi versi somigliare lo Stato ebraico a quei paesi che un tempo ne erano i più intransigenti avversari.

I colloqui recentissimi con Arabia Saudita e EAU (nonché con il Bahrein) segnano una nuova tappa di espansionismo non solo meramente diplomatico ma apertamente economico-commerciale nei confronti dell’Arabia Felix, per spezzare l’isolamento di Israele nella regione con il sostegno degli Stati Uniti d’America, nei confronti dei quali si apre la partita di una concorrenza che va ben oltre la semplice cornice del tatticismo politico.

Israele dialoga da tempo anche con alcuni Stati africani, cercandone l’appoggio e offrendone altrettanto: Netanyahu fa le vacanze in Uganda insieme alla moglie e al capo del potente servizio segreto esterno non certo casualmente. Il risultato di questa e di altre vacanze e visite estere è l’offerta di aprire a Gerusalemme una ambasciata dei rispettivi paesi e quindi intessere relazioni stabili tra Israele e quella parte di mondo arabo sunnita che gli è da sempre molto poco amica, anzi apertamente ostile.

Più difficile trovare alleati a nord dell’antica Giudea: Libano, Siria e Turchia sono nemici giurati di Israele. Ma, visto il rimescolamento delle posizioni attuali, è sempre più difficile anche sul fronte palestinese riuscire a mantenere intatto l’asse di solidarietà verso la causa nazionale, nei confronti della proposta di formazione di uno Stato indipendente riconosciuto prima di tutto da Israele oltre che dalla comunità internazionale.

Il lavoro diplomatico israeliano ha corroso l’omogeneità delle posizioni pro-Palestina fin dentro la Lega Araba, da posizioni di forza economica, in questo senso “occidentalizzando” le relazioni politiche, facendole apprezzare ai suoi nuovi amici arabi e africani mediante promesse di canali privilegiati con Tel Aviv e Gerusalemme e, di riflesso, col grande e potente alleato statunitense.

Occidente europeo ed occidente a stelle e strisce sono oggi alleati di un’Israele che va alla guerra con un arsenale militare di tutto punto, promettendo un ipocrita rispetto per la popolazione civile: lo stesso che fa riservare ai coloni nei confronti degli abitanti dei quartieri arabi di Gerusalemme o dei palestinesi in Cisgiordania.

Quanto abbia a cuore la verità dei fatti, Israele lo ha dimostrato abbattendo a Gaza l’edificio che ospitava le reti televisive più importanti del mondo arabo: Al Jazeera fra tutte. Serve a poco l’indignazione giusta dell’Associated Press come rimostranza presso il governo di Netanyahu. Sarà comunque molto interessante constatare nei prossimi giorni la reazione dei mezzi di informazione di ogni paese: l’attacco alla stampa e al giornalismo è un segno di debolezza che ufficialmente, nelle note del Tsahal, è diretto a basi di Hamas negli edifici più alti della città, mentre alla prova dei fatti risulta essere un tentativo (riuscito o meno ce lo dirà il tempo…) di oscurare quanto più possibile la diffusione mediatica di quanto avviene nella Striscia e delle ripercussioni fin dentro il cuore di Israele.

La globalizzazione ha effetti incontrollabili e non sempre prevedibili: tra questi la modernizzazione del sistema missilistico di Hamas che riesce a bucare il famoso “Iron dome“, lo scudo difensivo che dovrebbe intercettare tutti i razzi lanciati verso Israele e che invece – stando alle stesse fonti dell’esercito di Tel Aviv – ha fermato 1150 attacchi su 2900 nella quasi completata settimana di guerra.

Le prime falle nella sicurezza si iniziano a vedere e le ripercussioni sulla popolazione sono altrettanto evidenti: nessuno può sentirsi completamente al sicuro. E questo è già un primo dato allarmante per uno Stato che si considera – purtroppo con qualche ragione – una delle potenze militari della regione mediorientale.

La reazione palestinese e la resistenza di Gaza, dopo i bombardamenti a tappeto della “metropolitana” di Hamas, hanno sorpreso, prima ancora che il governo israeliano, proprio quella stampa internazionale che assiste al conflitto dai tetti degli edifici più alti della città.

Se da un lato Israele in questi anni ha tessuto una trama esterna volta a consolidare le sue posizioni anti-palestinesi presso paesi prima risolutamente ostili al dialogo, internamente non ha potuto fare altrimenti se non accelerare il processo di colonizzazione: è nella sua natura statale, sociale persino. Si ritorna sempre al concetto già espresso sulla spinta espansionista che prende il via con il movimento sionista e le reti spionistico-militari che, all’epoca, persino gli inglesi definivano “terroristi“: Irgun, Haganah…

Una triste storia ultra settantennale, dalla “Nakba” ad oggi, senza una soluzione apparentemente evidente nel prossimo futuro, con un conflitto rinato, rinvigorito da nuovi armamenti e nuove forze in campo che fanno ripensare anche alle ipotesi di creazione di due Stati per due popoli. Una soluzione che andrebbe rilanciata con una risoluzione dell’ONU che condanni l’aggressione incivile israeliana nei confronti dei palestinesi di Gerusalemme e della West Bank, così come l’aggressione militare contro la Striscia di Gaza. I numeri, alla fine, parlano da soli: più di 200 morti palestinesi e 10 israeliani. Tutti importanti, tutti da evitare. Ma la sproporzione è esattamente inversamente proporzionale alle forze in campo…

La fotografia del grande dramma palestinese è tutta qui. Ed ancora una volta sta non nella vita, ma nella morte, nella costrizione, nell’apartheid, nel colonialismo e nell’espansionismo imperialista di uno Stato che insulta la storia del suo popolo ogni volta che opprime un altro popolo.

MARCO SFERINI

16 maggio 2021

foto: schermata tv

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