Israele, sempre più lontano da convivenza e democrazia

In questi giorni la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato con tre voti in più rispetto alla maggioranza richiesta una legge per lo “Stato-nazione del popolo ebraico”. Apparentemente è...

In questi giorni la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato con tre voti in più rispetto alla maggioranza richiesta una legge per lo “Stato-nazione del popolo ebraico”.
Apparentemente è una tutela della cultura e della tradizione di un paese ancora giovane; in realtà è una forma di istituzione di una sorta di esclusivismo che mette fuori da ogni attività e convivenza dentro Israele chi non è ebreo: quindi anche gli arabo-israeliani, come i palestinesi che vivono nei confini dello Stato di Tel Aviv, finirebbero per diventare cittadini di serie B, proprio come l’arabo inteso come lingua non più al secondo posto tra quelle ufficialmente riconosciute dallo Stato, ma proprio definitivamente bandita. Tollerata, ma non riconosciuta più come idioma presente da millenni nella regione palestinese.
Un tipo di nazione fondata su princìpi di riconoscimento etnico in quanto a cittadinanza, diritti e quanto d’altro è già abbastanza inquietante di per sé. Se vi si aggiungono elementi di perenne contrasto con i palestinesi e lo Stato di Palestina formato dai territori occupati e da Gaza, come il riconoscimento della capitale nella totalità di Gerusalemme, senza distinzioni tra est e il resto, allora appare evidente che la legge licenziata dalla Knesset, voluta con vigore dall’estrema destra di Benjamin Netanyahu (e modificata in alcuni articoli persino dalla presidenza della repubblica di stampo conservatrice-laica) è il coronamento di un percorso di solidificazione dell’autoritarismo in un contesto religioso-politico che non ha eguali nella regione Mediorientale.
In Israele il 20% della popolazione è araba: per questa parte di cittadini c’è il serio concreto rischio che vengano annullati diritti costituzionali, libertà sociali e civili e che si crei da parte della maggioranza israelo-ebraica-sionista (le tre terminologie possono viaggiare distinte e significare differenti modi di “essere” nello Stato, ma rientrano comunque nel recinto di protezione dell’estrema destra che governa Israele) una tendenza all’isolazionismo verso la minoranza araba. Una sorta di apartheid moderno, una esclusione dalla vita sociale e pubblica di una fetta di popolazione che ha il solo torto di non vivere della e nella cultura religiosa ebraica.
La storia di Israele ci ha abituato a sorprenderci nel mettere a paragone quanto le sue politiche di espansione militare hanno prodotto in sett’anni di esistenza dello Stato fondato da Ben Gurion con ciò che avrebbe dovuto rappresentare la stella polare di un capovolgimento dell’orrore subito durante il periodo hitleriano.
Invece di dimostrare al mondo una diversità abissale tra i disvalori e le atrocità commesse contro il popolo ebraico dal Terzo Reich, fondando una nazione che trovasse nella convivenza tra i popoli della Palestina il suo controvalore rispetto al nazismo, sovente i governi israeliani hanno messo in pratica metodologie simili nel proibire ai palestinesi di vivere con dignità e con la dovuta libertà che gli spetta.
La storia come maestra non ha avuto e non ha scolari anche in questo frangente perché si scontra con la realpolitik delle relazioni internazionali e Israele ha affrontato avversari che lo hanno certamente minacciato e aggredito perché, a loro volta, si sono sentiti minacciati dall’avamposto americano in un’area di prevalenza neutrale o filosovietica nel periodo della guerra fredda. Ma ciò non ha giustificato e non può giustificare tutti i massacri che sono stati compiuti: da Sabra e Chatila fino ad oggi.
L’estremismo di Hamas non ha giovato alla causa palestinese, ma la politica autoritaria dell’estrema destra ha prodotto solo conflitto, stragi, nuovi nemici e ha consolidato soltanto gli angoli perimetrali dei muri eretti per dividere i popoli, per allontanare la solidarietà e l’umanità. Proprio come il nazismo aveva fatto creando sempre maggiori ghetti dove rinchiudere gli ebrei e poi mandarli allo sterminio.
Se a tutt’oggi gli arabi in Israele non godevano della totalità dei diritti degli israeliani veri e propri, con la legge appena approvata si fa un salto di qualità negativa: si sancisce per legge che una differenza comporta meno diritti per alcuni e diritti completi per altri.
Ancora una volta Israele si allontana da un percorso democratico e si rende sempre più avversario tra avversari, nemico tra nemici. L’interessa nazionale non può risiedere nel privilegio del popolo “di maggioranza” che abita in uno Stato rispetto alle minoranze, perché sarà sempre e solo un interesse di una parte contro un’altra. Non sarà mai una politica di giustizia sociale quella che discenderà da questi princìpi, ma solo una politica di privilegi per alcuni e di concessioni per altri.
Riconoscendo le ragioni della sua fondazione, della sua storia, Israele può cambiare percorso: può avvicinarsi ai valori dell’umanità che negano le atrocità compiute in tutti questi decenni e scrollarsi da addosso quell’etichetta d’essere simile ai carnefici del suo popolo nell’olocausto hitleriano, fuori dal delirio di superiorità etnico-religiosa, dentro invece un contesto di sviluppo delle relazioni sociali che mettano fine al conflitto con i palestinesi che non rende nessuno sicuro di vivere la propria vita.
Tutto ciò risponderà anche alla politica “reale” e “realistica”, ma molto poco interpreta la necessità di rispondere alla storia con fatti concreti, conservando la memoria e il rispetto per milioni di vittime attraverso la solidarietà internazionale, la vicinanza e la comunanza di culture che possono vivere insieme nella giusta, sacrosanta differenza di origine.

MARCO SFERINI

foto tratta da Pixabay

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